chiose filippine
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Il Complesso monumentale dei Girolamini è uno dei più grandi vanti storici e culturali della nostra città: oggi vi raccontiamo di uno dei più preziosi e sorprendenti manoscritti custoditi nella sua biblioteca.

Tra i suoi circa 160.000 titoli, infatti, ve ne è uno che nella comunità di studiosi porta il nome di Chiose Filippine. Si tratta del più importante codice della tradizione manoscritta meridionale della Divina Commedia.

Il manoscritto apparteneva alla splendida collezione privata di Giuseppe Valletta, un intellettuale napoletano. Alla sua morte, il filosofo Giambattista Vico consigliò ai Padri Girolamini di acquisirla: gli scaffali dell’Oratoriana si riempirono così di 18.000 volumi, alcuni dei quali rarissimi ed estremamente preziosi. Tra questi ritroviamo proprio le nostre Chiose.

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Le Chiose Filippine

Ma cos’è una chiosa?
Una chiosa è, propriamente, una sorta di annotazione, spesso a margine o a piè di pagina, che chiarisce il significato di un passo o di una parola di un testo. A tutti noi in effetti capita, o è capitato, magari studiando o leggendo, di scribacchiare qualcosa vicino a un passo particolarmente significativo, che suscita in noi riflessioni o il cui senso siamo costretti a specificare.

Nell’antichità accadeva esattamente la stessa cosa, in maniera più consistente di adesso. I grandi libri del passato costituivano infatti dei veri e propri oggetti di studio, che passando di mano in mano viaggiavano per zone anche ampie dell’Europa, accumulando nel tempo strati e strati di chiose, commenti, annotazioni.

Naturalmente, i manoscritti più studiati – e dunque più annotati – erano quelli che contenevano le opere di maggior fama e valore artistico.

Proprio questo è il nostro caso. Come abbiamo già accennato, infatti, il manoscritto contiene prima di tutto il testo della Divina Commedia di Dante Alighieri. Intorno al testo, poi, e in fasi cronologiche diverse, si ammassano disordinatamente tantissime chiose in latino, disposte tra i margini e l’interlinea.

Gli esperti sono per lo più concordi, per una serie di motivazioni che non è il caso di affrontare in questa sede e per le quali rimandiamo alla bibliografia, nel datare la stesura del testo della Commedia negli anni Cinquanta del Trecento, e nell’individuare ben sette mani che si avvicendano su di esso studiandolo e commentandolo. L’ultima di queste mani risale alla fine del Quattrocento.

Ma le chiose non sono l’unico elemento che fa di questo manoscritto una preziosissima perla. Al suo interno, infatti, vi è un amplissimo corredo iconografico di ben 146 miniature, vignette con scene relative al testo – per fare un esempio, tre vignette rappresentano il famoso incontro di Dante con le tre fiere, all’inizio del suo viaggio.

Gli storici dell’arte sono propensi ad attribuire queste miniature a una bottega di origini abruzzesi che operava però nella nostra città, quindi, di fatto, ad almeno tre maestri napoletani. Al di là dell’indiscusso valore estetico e decorativo, queste splendide miniature ci danno la possibilità di osservare con gli occhi di un lettore medievale il testo della Divina Commedia.

Infatti venivano naturalmente illustrati i passaggi considerati più significativi: le immagini costituiscono un percorso esegetico che l’illustratore antico, uomo del Medioevo, tracciava per i posteri. Le miniature sono una finestra che si apre per noi sul tempo andato: guardandole guardiamo il mondo con gli occhi di un uomo del Medioevo, epoca ricca di mistificazioni e fraintendimenti, di immagini e colori dall’indiscusso fascino, di infinite sfumature che potremo conoscere sempre e solo per approssimazione.

Napoli e la Divina Commedia

Il manoscritto della Biblioteca dei Girolamini, come abbiamo visto, ci permette di riflettere su quella che fu la ricezione della Divina Commedia nella nostra città in un arco cronologico notevolmente ampio.

Ma come facciamo a sapere che questo manoscritto è stato “annotato” nella nostra città? La risposta è semplice: attraverso alcune considerazioni di tipo linguistico.

La Divina Commedia, come è risaputo, fu infatti scritta in volgare fiorentino: ancora oggi abbiamo bisogno di note e parafrasi per comprendere pienamente il significato di alcuni passaggi, e per orientarci nella dinamicissima lingua di Dante; eppure, l’italiano, la nostra lingua, è ampiamente basato proprio su quel volgare fiorentino.

Pensate quindi quanto doveva essere difficile per un napoletano, pur colto, leggere e comprendere una lingua che era molto distante dalla propria! Per questo, accanto ad alcuni lemmi danteschi, i chiosatori del codice Filippino spesso annotarono sinonimi equivalenti in volgare napoletano.

Facciamo un esempio. Nel canto XXIX dell’Inferno Dante utilizza il termine “schianza”, riferendosi alle croste formate dalla scabbia che costellano i corpi dei dannati. Un chiosatore napoletano legge questo termine sconosciuto al suo dialetto, e, proprio come oggi troveremmo una nota a piè di pagina che ci traduce una parola in una lingua straniera, propone un sinonimo per “schianze”: questo sinonimo è la parola “cocceche” forma antica per “cozzeche”.

In questo modo il commentatore si sofferma sulle croste di pelle “attaccate al corpo come fossero cozze”. Si tratta, volendo, della prima attestazione di un significato che, forse, ha portato nei secoli all’espressione ancora oggi utilizzata “tenere ‘e cozzeche”, “essere incrostato dalla sporcizia”.

In un’altra chiosa ritroviamo l’utilizzo del termine “rasche”, ancora oggi utilizzato per “sputo catarroso”; insomma, di certo non mancano gli indizi (naturalmente combinati con considerazioni interne e paleografiche) che ci suggeriscono che già nel Trecento a Napoli la Divina Commedia era letta, studiata e commentata.

Lo studio di codici come le Chiose Filippine permette di avvicinarsi, da un punto di vista insolito, alla sensibilità culturale di un’epoca lontana. Rende possibile conoscere la Napoli angioina non solo attraverso i libri di Storia, ma attraverso i suoi stessi prodotti culturali.

chiose filippine

Da un lato,  i manoscritti chiosati e vergati a Napoli ci permettono, attraverso una serie di “spie” linguistiche come quelle che abbiamo riportato sopra, di ampliare la conoscenza della nostra splendida lingua, il napoletano, scoprendo l’origine di termini ancora oggi in uso e comprendendone pienamente le sfumature di significato.

Dall’altro possiamo guardare con occhi nuovi la Storia della nostra città.
Riusciremo così a percepire il fermento culturale, artistico e intellettuale che pervadeva nei secoli passati la nostra città, dove un’opera eccezionale come la Commedia fu da subito apprezzata e studiata, e dove l’amore e la dedizione per l’arte e la letteratura trovarono sempre e da subito il più fertile terreno per crescere.

Beatrice Morra 

Illustrazione di copertina di Laura Capuano

N.B. Come sempre quando ci accingiamo ad affrontare argomenti complessi, che necessitano competenze interdisciplinari e studi attenti, ci teniamo a specificare che per le esigenze del nostro format abbiamo semplificato in maniera talvolta estrema situazioni e dinamiche. Per approfondirle, ecco una bibliografia sommaria di riferimento:

Francesco Sabatini, Napoli angioina. Cultura e società, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 1975

Andrea Mazzucchi (a cura di), Chiose Filippine. Ms. CF 2 16 della Bibl. Oratoriana dei Girolamini di Napoli, Roma, Salerno Editrice, 2002, 2 to., pp. 1356 («Edizione Nazionale dei Commenti danteschi», vol. 24)

Andrea Mazzucchi, Commenti danteschi antichi e lessicografia napoletana, in «Rivista di Studi Danteschi», a. vi 2006, fasc. 2 pp. 321-70

Andrea Mazzucchi, Supplementi di indagine sulla ricezione meridionale della ‘Commedia’ in età angioina, in Boccaccio angioino. Materiali per la storia culturale di Napoli nel Trecento, a cura di G. Alfano, T. D’Urso e A. Perriccioli Saggese, Bruxelles, Peter Lang, 2012

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