I rapporti fra la camorra e il fascismo a Napoli furono davvero molto complessi. Fra repressioni violentissime ed ex camorristi che provarono ad entrare nel partito,
Lo stesso Mussolini più volte si soffermò sul problema della criminalità organizzata, dichiarando addirittura “estinte” la mafia e la camorra. Diciamo che il futuro non gli diede ragione, ma è molto interessante scoprire cosa accadde ai camorristi durante il ventennio.
Alle origini del fascismo napoletano
Facciamo una breve premessa: anche se il fascismo nel Sud Italia arrivò con una certa lentezza, mentre al Nord era ben più radicato, Napoli era una delle basi più forti del nascente movimento, come testimoniano anche i preparativi della famosa marcia su Roma svolti proprio con un’immensa parata fra Piazza del Plebiscito e Via Medina il 24 ottobre 1922. L’ex capitale, infatti, pur non avendo più un ruolo politico decisivo in Italia, rimaneva simbolicamente la rappresentante di tutto il Meridione. E Mussolini questo lo sapeva bene.
In città c’erano due figure forti: Aurelio Padovani e Paolo Greco. Il primo era giustizialista e squadrista, convintissimo che il fascismo dovesse essere il responsabile dell’“epurazione politico-morale” dell’Italia, eliminando tutti “i vecchi”, così appellava i politici delle precedenti generazioni.
Greco, invece, era della vecchia generazione: esponente del partito nazionalista e incline ai compromessi con i poteri forti locali, tant’è vero che attorno a sé radunò tutti i personaggi della vecchia politica napoletana. Da Ciccotti, socialista, a Tittoni, giolittiano, esponenti di ogni partito che, quando le “camicie azzurre“ di Greco confluirono nel fascismo, diventarono ferventi fascisti vicini a Paolo Greco.
Nei primi anni del fascismo napoletano, Padovani aveva un vero e proprio plebiscito di consensi, che gli permise di mettere alla porta tutti “i vecchi” della politica locale che avevano fatto la propria carriera con Giolitti e Nitti, che tanti malumori avevano portato nel napoletano.
D’altronde, l’immagine della politica a Napoli era stata già parecchio infangata dalla stampa degli ultimi vent’anni: nel 1902 l’Inchiesta Saredo sulla Camorra Amministrativa aveva messo a nudo tutto il marcio di Palazzo San Giacomo, poi ci pensò nel 1916 il teatro mediatico e politico attorno al Processo Cuocolo a creare il binomio “Napoli-Camorra” che ancora oggi ci tormenta. Fu proprio questo malessere sociale che diede consensi e potere all’arrembante gerarca fascista.
La linea dura di Padovani
Padovani denunciò più volte l’opportunismo di molti politici che, per rimanere al potere, si erano legati al neonato movimento di Mussolini: li definì figli della “vecchia scuola clientelare italiana, affiliati alla vecchia politica o – peggio- alla malavita”.
Ma non si fermò alle parole: fra Napoli e Terra di Lavoro si registrarono numerose aggressioni squadriste di matrice politica anche contro gli altri fascisti. Il gerarca era considerato un idolo da molti suoi sostenitori grazie al suo temperamento assai simile a quello dei guappi.
Allo stesso modo, il partito fascista aveva gran fastidio nell’avere fra le fila un elemento insubordinato e spesso critico verso i suoi stessi esponenti.
Arrivò presto la morte di Padovani, con circostanze mai ben chiarite. Sappiamo solo che morì nel 1926 a causa del crollo del balcone del palazzo dal quale era affacciato per salutare la folla che lo festeggiava nel giorno dell’onomastico.
Quel che è certo è che, da quel momento, Paolo Greco ebbe strada libera e portò equilibrio dopo il terremoto di Padovani. Tornarono, sotto nuova bandiera, i vecchi equilibri che governavano Napoli da quarant’anni.
La camorra e il fascismo: chi entrò nel partito
I camorristi dell’Onorata Società, ridotti a guappi di quartiere dopo il Processo Cuocolo, durante il ventennio tennero un basso profilo. Allo stesso modo, la stampa di regime poco si curò di parlare di criminalità organizzata.
Fra la camorra e il fascismo, però, ci furono anche incontri: fra i camorristi “integrati” nel fascismo, emblematico fu il caso di Arturo Cocco, noto capintrito della Sanità, che si unì agli squadristi che marciarono su Roma. Oppure ancora un tale Marco Buonocore, guappo dei Quartieri, sparò ad un operaio socialista in sciopero ad Acerra e fu presto inquadrato fra le camicie nere.
Altri esempi sono quelli di Vittorio e Armando Aubry, altri due ex affiliati all’Onorata Società, che fino al 1935 ottennero l’appalto delle operazioni di carico e scarico di materiali dai pontili dell’ILVA di Bagnoli, in cambio di una efficace repressione di qualunque forma di rivolta operaia all’interno degli stabilimenti industriali.
Uno dei casi più interessanti fu quello di Peppuccio Romano, deputato ormai sessantenne ai tempi del primo Mussolini. Frequentava il parlamento sin dai tempi di Umberto I e, già verso la fine dell’800, fu costantemente al centro di polemiche legate ai suoi rapporti con la criminalità, la corruzione e clientelismo al servizio di Giolitti.
I suoi stretti contatti con la criminalità organizzata aversana posero in passato seri dubbi sulla regolarità delle elezioni in parlamento di Pietro Rosano che, nel 1903, si suicidò in preda ad una crisi depressiva causata proprio dai continui attacchi personali ricevuti dai deputati socialisti.
Nel frattempo l’onorevole Romano, come si legge in una lettera del 1909, in cambio dei voti aveva fatto salire al Comune di Aversa “i più noti ceffi della mala vita paesana“.
Piazza pulita dei camorristi con Vincenzo Anceschi
La dottrina fascista in ambito di controllo territoriale non poteva accettare alcuna entità che potesse mettere in discussione la presenza totalizzante dello Stato.
Non deve meravigliarci allora se i metodi utilizzati per reprimere la criminalità organizzata furono vere e proprie azioni militari: la vicenda del prefetto Cesare Mori, in Sicilia fu un esempio perfetto. Celebre fu l’assedio di Gangi, in cui il governo mise sotto assedio una propria città per far arrendere i capi mafiosi rifugiatisi all’interno.
Anche la Campania ebbe il suo uomo di ferro: il carabiniere Vincenzo Anceschi, che fu incaricato dal Governo per combattere la criminalità organizzata dalla zona dei Mazzoni (che sarebbe quella zona che si trova tra il Volturno ed i Regi Lagni). I suoi metodi non furono molto diversi da quelli di Mori, anche perché gli furono dati “pieni e illimitati poteri”, che esercitò creando un vero e proprio Stato di Polizia nel casertano.
Il rapporto della missione di Anceschi, che durò poco più di un anno, fu una fotografia desolante della scena politica, sociale ed economica del territorio casertano, con una classe politica compromessa con la criminalità.
In molti Comuni non sono ancora nominati i Podestà, si propongono e si ripropongono, e vi sono taluni assolutamente incapaci ed inetti.
In ciò non è estranea qualche inframmettenza
Relazione di Vincenzo Anceschi al Governo
politica. Così dicasi dei Segretari Politici, alcuno dei quali, protettore della delinquenza è stato perfino, per intervento energico dell’Arma, ammonito o fatto espellere; altri
influivano ed influiscono sulla magistratura ed infine qualche altro trescava con la Massoneria, per cui sono in corso indagini.
Mussolini parla della camorra
C’è un passo del discorso dell’Ascensione di Mussolini alla Camera dei Deputati che fa riferimento proprio alla camorra provinciale:
“Veniamo ai Mazzoni. I Mazzoni sono una plaga che sta tra la provincia di Roma e quella di Napoli, ex-Caserta: terreno paludoso, stepposo, malarico, abitato da una popolazione che fin dai tempi dei romani aveva una pessima reputazione, ed era chiamata popolazione di latrones.
Vi do un’idea della delinquenza di questa plaga. Nei cinque anni che vanno dal 1922 al 1926, furono commessi i seguenti delitti principali, trascurando i minori: oltraggi alla forza pubblica 171; incendi 378; omicidi 169; lesioni 918; furti e rapine 2.082; danneggiamenti 404. Questa è una parte di quella plaga. Veniamo all’altra parte, quella dell’Aversano: oltraggi 81; incendi 161; omicidi 194; lesioni 410; furti e rapine 702; danneggiamenti 193.
Ho mandato un maggiore dei Carabinieri con questa consegna: “Liberatemi da questa delinquenza con ferro e fuoco!” Questo maggiore ci si è messo sul serio. Difatti, dal dicembre ad oggi, sono stati arrestati, per delitti consumati e per misure preventive, nella zona dei Mazzoni 1.699 affiliati alla malavita, e nella zona di Aversa 1.268.
I podestà di quella regione sono esultanti, i combattenti di quella regione altrettanto. Io ho qui un plico di telegrammi, di lettere, di ordini del giorno, documenti con i quali la parte sana di quella popolazione ringrazia le autorità costituite, le autorità del regime fascista per l’opera necessaria di igiene che sarà continuata fino alla fine.”
Discorso dell’Ascensione
I risultati della missione furono effettivamente notevoli: migliaia di arresti (le fonti storiografiche non concordano: c’è chi parla di 3000 e chi invece addirittura ne conta 9000) e venti processi per associazione a delinquere instaurati dinanzi al tribunale di Santa Maria Capua Vetere.
Più in generale, la guerra dello Stato alla Camorra fra il 1922 ed il 1930, condotta con strumenti di natura militare che oggi sarebbero incostituzionali in ogni loro forma, di fatto tagliò la testa al mostro: senza capi e con una manovalanza decimata e frammentata, la criminalità organizzata si ridusse a singoli fenomeni di violenza.
Sparisce la provincia di Caserta
Alla fine del suo mandato Anceschi lanciò un monito che, con il senno di poi, non fu ascoltato: “abbiamo eliminato i Mazzoni delinquenti, ma a questo punto bisogna intervenire sul territorio, bisogna costruire strade, scuole, una rete idrica, dare occupazione alla gente, perché sennò il fenomeno si riprodurrà”.
Il carabiniere ci aveva visto bene. La risposta fascista, però, fu abbastanza blanda sotto il punto di vista di investimenti sull’occupazione locale, mentre colse al balzo l’invito a “riformare la provincia di Terra di Lavoro“. Proprio la provincia del casertano nei primi anni ’20 fu infatti teatro di scontri ferocissimi fra le fazioni di Paolo Greco e di Aurelio Padovani, con reciproche accuse di illegalità, collusioni con la criminalità locale e addirittura con violenze fra gli stessi fascisti.
Nel 1927 il Duce prese quindi una decisione draconiana: fu eliminata la provincia di Terra di Lavoro, rimasta intatta sin dai tempi dei Borbone: era il territorio provinciale più grande d’Italia, da Gaeta fino alle porte di Napoli.
Spiegò che “Caserta si deve rassegnare ad essere un quartiere di Napoli“, disegnando in poche parole un progetto politico che mirava a concentrare in Napoli tutto il potere economico e politico meridionale.
Il Duce prese due piccioni con una fava: l’eliminazione di Caserta gli lasciò spazio libero per creare le province di Littoria e Frosinone ed espandere i territori del Lazio.
Una vittoria di Pirro
Il maggiore Anceschi, insomma, aveva disegnato un quadro corretto, ma lo smantellamento della politica casertana e l’arresto di migliaia di delinquenti non risolse il problema. Anzi, i valori tipici della criminalità campana non furono combattuti con una politica economica e di alfabetizzazione. Per giunta alcuni principi come quello della guapparia, diventeranno valori esaltati dal modello di virilità della propaganda di regime. Allo stesso modo, gli amministratori “inefficienti e corrotti” denunciati dal carabiniere non furono sanzionati e molti di questi rimasero come podestà dei vari comuni casertani.
E poi la camorra, smantellata nella sua struttura, rimase latente sotto il tessuto sociale napoletano, in attesa di ritornare dopo la Guerra in nuove ed ancora più evolute forme.
-Federico Quagliuolo
Riferimenti:
Giacomo De Antonellis, La fine del fascismo a Napoli, Edizioni Ares, Roma, 1967
Pasquale Villani, Gerarchi e fascismo a Napoli, Il Mulino, Bologna, 2013
Gerardo Picardo, Aurelio Padovani: il fascista intransigente, Controcorrente, Napoli, 2003
Giacomo De Antonellis, Napoli sotto il regime, Donati, Milano, 1972
Enzo Anceschi, I carabinieri reali contro la camorra, Laurus, Roma, 2003
Le origini del fascismo a Caserta
Notiziario storico dell’Arma dei Carabinieri
Il sistema di potere di Peppuccio Romano
La camorra in terra di lavoro, tesi di Gianni Criscione
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