La Falanghina è un vino bianco prodotto dall’omonima uva a bacca bianca che, negli ultimi anni, ha avuto una grandissima diffusione ed ascesa, al punto da diventare uno dei vini più presenti sulle tavole delle famiglie e dei ristoranti campani e d’Italia. È ampiamente diffusa in tutta la regione, con alte espressioni qualitative soprattutto nei Campi Flegrei, dove è tutt’ora coltivata a piede franco con un sottotipo che dà luce a vini tendenzialmente freschi, giovani e delicati (a causa del terreno sabbioso), nel Sannio, dove si hanno vini più strutturati e corposi, e sul Vesuvio (dove è spesso utilizzata nei blend per il Lacryma Christi Bianco).
Etimologia incerta
Con la sua larga diffusione, sono state fatte molteplici ricerche etimologiche e, sebbene non ancora storicamente accertate, sono due le ipotesi più accreditate dietro il nome di Falanghina: secondo la prima ipotesi deriverebbe dalla parola greca “φάλαγξ “(Falags), usata per indicare bastoni e legni cilindrici, da cui il termine latino “Phalanga” ovvero gli alti pali di legno utilizzati per sostenere e sollevare le viti durante l’allevamento (per evitarne il contatto diretto con il terreno ed il conseguente ammuffimento); secondo un’altra ipotesi deriverebbe invece dalla parola greca “φαλάγγιον“(Falaggion), traducibile come un tipo di erba, con una fonetica molto simile all’attuale nome. Per un periodo fu erroneamente usato come sinonimo quello di “Uva Falerna“, frutto però di una sbagliata interpretazione di un testo dove veniva paragonata al Falerno, ma solo per indicarne l’alta qualità.
L’intuizione di Leonardo Mustilli e la produzione in purezza
Nonostante la sua secolare presenza nel nostro territorio, sarebbe infatti giunta a Puteoli (Pozzuoli) tramite i Greci, fino agli anni ’70 era poco valorizzata. In quel periodo venivano preferite varietà internazionali rispetto alle autoctone, con la Falanghina che, quando prodotta, era destinata ad essere “uva da taglio” per altri vini, per lo più destinati al mercato dei Castelli Romani, oppure era utilizzata per la distilleria. L‘anno zero per la rinascita e l’inizio dell’inarrestabile esplosione quantitativa e qualitativa della Falanghina così come la conosciamo oggi, è stato il 1979. In quell’anno un produttore beneventano, Leonardo Mustilli (noto da allora come “l’ingegnere della Falanghina“), tornato da circa un paio di decennio nel borgo sannita di Sant’Agata de Goti dove fondò l’omonima e tutt’ora attiva cantina Mustilli, produsse ed imbottigliò per la prima volta della Falanghina vinificata in purezza, ovvero senza aggiunta di altre tipologie di uve.
Al contrario di come spesso accade, la sua non fu un’intuizione casuale o fortuita, ma l’apice di un percorso di studio e riscoperta delle varietà autoctone locali che Leonardo aveva iniziato già da anni, piantumando e curando barbatelle di Falanghina con lo specifico intento di puntare su questo oro bianco locale, nonostante potesse essere meno produttivo ed economico di varietà internazionali all’epoca utilizzate. La sua intuizione si rivelò vincente. Il frutto di quel sogno fu un vino che convinse anche i più scettici, al punto da far modificare i discipinari, e che avrebbe cambiato profondamente il movimento enologico del Sannio. Da allora infatti vi fu una generale riscoperta delle varietà locali ed una tendenza all’esaltazione di vini prodotti in purezza invece che in blend con altri uvaggi. Un cambiamento non solo tecnico, ma identitario.
La Falanghina oggi
Oggi la Falanghina è l’uva bianca più coltivata in Campania; rientra in numerose denominazioni tutelate ed è esportata in molti paesi e mercati esteri. Come molti tesori nascosti è in realtà sempre stata lì, sotto gli occhi di tutti, in attesa che qualcuno avesse la pazienza di credere nel suo potenziale ed il coraggio di investirci per elevarla e darle la possibilità di essere, com’è oggi, apprezzata ed amata in tutto il mondo.
Umberto Rusciano
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