Ambulante, eternamente in viaggio, un narratore insuperato, avventuroso, al limite del codice penale, che ha affinato nel tempo intraprendenza, furbizia, inventiva e improvvisazione. Alcuni dicono che sia un mestiere? No, non lo è affatto. Il mestiere è il meccanico, il saldatore, il falegname, il sarto. Quello del magliaro è semplicemente un imbroglio, una sorte di “arte” truffaldina che a volte ricorre all’illusionismo, altre al puro raggiro.
Definizione ed origini del magliaro
Il magliaro è il venditore di tessuti di scarsa qualità e di incerta provenienza a clienti d’occasione da affare irripetibile, un’occasione che si risolve immediatamente in un gigantesco bidone.
Alcuni lo chiamano “mestiere”, “lavoro”. Nulla di tutto questo: è semplicemente un truffatore. Creativo, incantatore dall’espediente facile e la parlantina veloce, dove il mondo è un grande mercato a cielo aperto. Ambizioso di diventare la “carta di tressette”, il massimo grado di riconoscenza nell’ambiente dei magliari.
L’origine dei magliari è strettamente intrecciata con l’emigrazione: i primi magliari, napoletani, avevano avuto l’orizzonte del Sud America, poi era stata la volta dell’Europa industriale del secondo dopoguerra, soprattutto l’area industriale e mineraria compresa tra Belgio, Francia e Repubblica federale tedesca, sulle orme dei flussi migratori degli operai italiani.
C’era un’epoca, infatti, dove venditori ambulanti uscivano con gli zaini dietro le spalle con dentro delle maglie (da qui il nome “magliaro”) di lana che si chiamavano le “carabiniere”. Avevano il colore della lana e invece poi, quando i compratori la mettavano nell’acqua per lavarle, scoprivano in fretta che non era lana.
Giovani che per sottrarsi alla miseria e alla precarietà esistenziale provavano ad ascendere la gerarchia sociale attraverso una pratica del commercio senza fissa dimora che li trasformava in piccoli imprenditori cosmopoliti.
Luciana Viviani sosteneva: “Esiste una soglia della credulità umana, un limite che giace inconsapevole nel fondo della coscienze“. L’abilità del magliaro sta nel cogliere quel limite, inventarsi un’identità e una storia capace di espugnarla.
Il ventennio fascista: il periodo d’oro dei magliari in Italia
Come detto, i magliari nascono insieme al fenomeno della massiva emigrazione italiana all’estero, poco dopo l’unità del Paese, a cavallo tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, e si diffondono principalmente in Europa e nelle Americhe.
In Italia, invece, il loro periodo d’oro è durante il ventennio fascista (dai primi anni Venti alla prima metà degli anni Quaranta del Novecento), che lasciò un margine d’azione tanto ampio che i fantasiosi mercanti colsero appieno.
La boicottata produzione nazionale esaltata dal regime aveva lasciato sul mercato prodotti di pessima qualità, sbeffeggiati e sabotati, anche per il disappunto internazionale circa la questione abissina. I numerosi Napoletani aggirarono l’ostacolo portando direttamente a destinazione i pacchi di tessuti rifiutati.
Negli anni che precedettero la seconda guerra mondiale, l’enorme emigrazione sospetta portò al blocco di passaporti napoletani venditori di maglie, commercianti di stoffe. Ma quando se li videro rifiutare, si attrezzarono per rinnovarli come venditori di cioccolato: avevano vinto loro.
Bussavano alle porte offrendo capi d’occasione facendoli passare per rubati: il valore era alto ma il prezzo era sceso perchè la roba scottava. In realtà la merce non aveva alcun valore, e a una prima lavata le splendide lenzuola da corredo si riducevano a volgari pezzi di stoffa.
Nel tempo della guerra il trucco della refurtiva si trasformava in “merce requisita“, e l’ultimo trucco, in tempi più recenti, era stato quello della mancata eredità: l’acquisto a rate che il parente appena defunto aveva lasciato insoluto.
L’abito fa il…magliaro!
Dalle dichiarazioni di Il Soldato, uno dei più importanti magliari ad essersi raccontato, si legge:
“Io sto vestito elegante e ci sto vestito sempre, questo è uno dei fattori più importanti del mestiere perché non è vero che l’abito non fa il monaco. L’abito lo fa il monaco! Il taglio di capelli fa il monaco, la barba fatta tutti i giorni fa il monaco, il colletto inamidato fa il monaco.
Per il mestiere ci voleva eleganza. Chi fa questo mestiere non deve portare nemmeno le scarpe con i lacci, deve portare i mocassini, deve essere elegante, ben sbarbato, i capelli corti, deve avere un bel viso e deve essere un gentiluomo. Deve andare alla scuola di portamento, essere profumato, bello fresco.
Il magliaro non si fa capire, non si deve far capire. Devi parlare sempre con la mezza lingua in modo che, se sbagli, ti puoi riprendere subito… ti incammini su un’altra strada e la persona resta sempre là a parlare con te”.
Storie di magliari
Salvatore il magliaro riporta di un gioco di prestigio organizzato alla stazione, al porto, alle fermate delle ferrovie, quando smerciavano, in uno smozzicato idioma locale, giacche di renna (pezzi di scarto, difettosi, acquistati da fabbriche svedesi): con insistenza le facevano provare e se l’indossatore, infilando la mano in tasca, tastava un prezioso oggetto (orologio, penna, portafoglio) e contrattava l’acquisto senza farne parola, il gioco era fatto: scattava la truffa della controtruffa, l’ignaro acquirente fuggiva via convinto d’aver fatto un doppio affare, la giacca e il prezioso oggetto dimenticato.
Straordinario patrimonio di storie, cunti e cunti degni del più nutrito Pentamerone, la vita dei magliari si perde attraverso intricate e affascinanti leggende: dal primo medico disoccupato di Secondigliano, partito nel 1909 alla ricerca di ammalati disposti a lasciarsi curare e finito a smerciare stoffa, presunta refurtiva di una nave affondata, fino alla storia di Mario Gagliardi, la carta di tressette per eccellenza, “il magliaro più ricco e potente del mondo”, raccontato da Paliotti, che al numero 17 di Elbestrasse, a Francoforte, riceveva piazzisti alle prime armi, chiudeva affari per milioni di marchi, stringendo tra i denti l’immancabile sigaro fumante.
Don Mario si era fatto da sè, partito da Capodichino, dietro Secondigliano, numero 7 di via Berlingieri; era andato a vendere stoffa a Vienna, a Marsiglia e per tutta la Costa Azzurra. Nel 1927, quando le cose andavano veramente male, dovette chiudere gli occhi, “affidarsi alla fortuna e a sant’Antonio di Afragola” (V. Paliotti) per scegliere con la punta dell’indice la città in cui avrebbe provato a ricominciare. La scelta ricadde su Offenbach, a nove chilometri da Francoforte.
Qui iniziò la sua lunga ascesa. Tra gli episodi più appassionanti ci fu sicuramente la conversazione, al tempo del razionamento nazista, della sua fabbrica di stoffe in fabbrica di gelato (secondo un discorso di Hitler mai i gelati sarebbero stati sottoposti a razionamento), e l’amore perduto per la giovanissima Maria Metzger che gli mise la polizia alle calcagna, per il disaccordo paterno.
La figura del magliaro sul grande schermo
Le storie dei magliari sono state spesso anche protagoniste di produzioni cinematografiche. Tra le più importanti c’è sicuramente “I magliari“ di Francesco Rosi, con attori del calibro di Alberto Sordi, Belinda Lee, Renato Salvatori, Aldo Giuffrè, Nino Vingelli ed Aldo Bufi Landi.
Il film venne girato interamente in Germania, tra Hannover e Amburgo. La produzione visitò i luoghi frequentati da veri magliari e si avvalse della loro collaborazione, da cui gli attori presero spunti.
La pellicola narra la storia di Mario, un operaio italiano che ha lasciato la città di Hannover, dove ha tentato invano di trovare fortuna, e sta per tornare in Italia. Un giorno incontra casualmente Totò, un astuto truffatore romano che traffica in stoffe, che lo convince a restare. I due cominciano a lavorare insieme, poi Mario entra al servizio di Raffaele, un intraprendente napoletano che, per mezzo di un gruppo di magliari, ha organizzato su vasta scala un traffico di tessuti falsi.
Fonti
“Grandi e piccole storie su Napoli che non ti hanno mai raccontato” – Agnese Palumbo
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