IABO, napoletano classe 1980, nonostante la sua giovane età vanta già 20 anni di carriera, celebrati a inizio anno con una mostra al Palazzo delle Arti di Napoli dal titolo “Iabo 20th”. Ama definirsi un artista piuttosto che uno street artist, e nella sua decennale esperienza ha avuto modo di maturare una personalissima visione dell’universo artistico.
Benvenuto IABO. “Inafferrabile” ed “imprendibile”, così sei stato definito da alcuni. E forse questa tua indole ti ha spinto per un periodo lontano da Napoli, la tua città natale. É stata più una fuga o una ricerca? E perché hai deciso di tornare?
Queste due parole mi hanno accompagnato negli ultimi 20 anni. Chi le ha utilizzate faceva semplice riferimento al background di IABO come writer, anche se ora preferisco definirmi un artista. Come tutti i writers all’inizio operavo nell’anonimato, ai limiti della legalità. Col passare del tempo ho abbandonato questa realtà, accedendo al mondo del mercato dell’arte contemporanea, palesandomi. Ormai tutti sanno chi sia IABO.
Ad un certo punto del mio percorso artistico sentivo l’esigenza di conoscere il mondo. La prima volta negli Stati Uniti fu nel 1987 dove ho potuto ammirare dal vivo la subway piena di graffiti. Mi sono trasferito lì nel 1997 con i miei genitori in quanto mia madre è americana e poi sono ritornato negli Stati Uniti decine di volte. New York in quel periodo era La Mecca dell’arte contemporanea e del graffiti writing, quello vero, in quanto tutto parte da lì.
L’esperienza americana è stata molto formativa, ho avuto la fortuna di studiare artisti come Banksy, OBEY in un periodo in cui il graffiti writing non era più solo quello che si realizzava sui treni con lo spray ma sperimentava altre tecniche (stencil, pittura diretta su muro) interagendo con l’ambiente urbano. Un qualcosa che arredava con operazioni mirate che avevano un certo peso e un valore estetico. Quella di IABO la definirei una ricerca più che una fuga.
Sono ritornato a Napoli inizialmente per un mero discorso economico, mantenersi negli Stati Uniti come artista alle prime armi non era affatto facile. Il giovane IABO vendeva poco e niente e quindi è stata una scelta piuttosto forzata anche se col senno di poi ritengo sia stato un bene. Il mio bagaglio pieno di esperienze, cose viste e conoscenze mi è servito per realizzare i lavori tra il 2000 e il 2004.
Molte delle tue opere sono ispirate a personaggi dell’attualità, del mito e dell’immaginario collettivo. Se ne dovessi dipingere uno in questo preciso momento, quale sarebbe il soggetto scelto?
Nella mia carriera ho rappresentato tantissimi personaggi noti e non, filtrati e interpretati attraverso il mio punto di vista. Negli ultimi anni sto cercando di andare oltre questo discorso, miscelando progetti come “I want to be an artist” e “Siamo tutti Supereroi”. Non si vede più un singolo profilo su una tela, come fatto per anni, ma commistioni, scambi, tagli. Nuove immagini che partono dai profili ma che diventano “altro”, con significati più potenti e forti. Negli anni a venire ci saranno sempre meno personaggi singoli sulle tele, come visto anche nella mia ultima mostra “Iabo 20th” al PAN di Napoli.
Tu hai girato e vissuto in molte parti del mondo, in particolare in America. Qual è il posto più affine alla tua arte e alla tua sensibilità? Che posto occupa Napoli in questa tua personale classifica?
Ho avuto la fortuna di viaggiare tantissimo e vedere molte città del mondo, grandi metropoli. Napoli però è sempre al primo posto e forse è stata la città a cui il mio lavoro deve quasi tutto: ironia, colore, follia, tutto ciò che chi è di Napoli riconosce sempre nei miei dipinti.
Sarò sincero, dopo aver vissuto una vita nelle metropoli credo di aver raggiunto il limite e in questa fase preferisco la tranquillità al caos della giungla urbana. Nel mio futuro mi immagino di vivere in maniera più isolata, in pace. Infatti oggi non vivo nella città ma per scelta ne resto un po’ in disparte. Questo credo mi faccia bene anche dal punto di vista creativo.
Cosa consiglieresti ad un giovane della nostra terra che, come IABO vent’anni fa, vuole seguire le orme della street art?
Una domanda da due milioni di dollari. Sulla base della mia esperienza penso che quando hai talento puoi trovarti in qualsiasi parte del mondo: prima o poi questo talento esplode, esce fuori e non c’è nessuna difficoltà che tenga. Bisogna avere le idee ben chiare su quello che si vuole fare. Sembra banale ma bisogna credere in quello che si fa e imporsi. É fondamentale dare il massimo sia fisicamente che mentalmente, fino quasi a distruggersi accettando l’incertezza, il disagio.
Oggi con i social i giovani hanno una possibilità di visibilità maggiore rispetto al passato. Sono però sono un’arma a doppio taglio in quanto potrebbero privarti del piacere di spostarsi, scoprire nuovi posti, conoscere persone, apprendere le dinamiche del mondo artistico. L’esperienza sul campo rimane comunque fondamentale.
Fare l’artista è la cosa più difficile al mondo. La street art, in particolare, la ritengo consumata, un “cadavere” che ha più di vent’anni che ormai ha poco altro da proporre. É necessario partire da lì per andare oltre.
In diverse occasioni hai affermato che il futuro della street art è all’interno dei musei. Molti la considererebbero una sconfitta. Tu invece come giudichi questa tendenza?
Non sono l’unico a dirlo, ma anche altri artisti provenienti dal mondo urban condividono questo pensiero. É inevitabile che avrebbe subito un processo di documentazione e studio attraverso esposizioni. Lo ritengo anche giusto da un punto di vista. Più che una sconfitta la ritengo una vittoria perché con il lavoro fatto in strada ti imponi nella società che riconosce, certifica tutto ciò che, anche in maniera illegittima, hai comunicato sulle mura della città. Io penso che in fondo in fondo ogni street artist sogni di esporre in un museo o una grande galleria e di entrare nelle più grandi collezioni.
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