«Se non hanno pane, che mangino brioche». Avrebbe detto così la Regina Maria Antonietta di Francia, in risposta al popolo che insorgeva per la povertà e contro gli sprechi della Corte di Versailles. La cucina napoletana è stata fortemente influenzata dai suoi sovrani, e chissà se deve aver pensato qualcosa di simile anche Maria Carolina, sorella della sovrana di Francia, e regina consorte del Regno di Napoli, quando, poco più che ventenne in sposa a Ferdinando IV di Borbone, introdusse nella corte partenopea la tradizione delle graffe. Sì, perché con il suo arrivo sul trono di Napoli, l’illuminata sovrana di origine austriaca portò con sé tutto un mondo di cultura e usanze (anche culinarie) che entreranno a far parte dell’anima della tradizione.
La graffa, dolce della cucina napoletana, nata per errore
È il caso della “graffa”, dolce di pastella fritta e ricoperto di zucchero, che diventerà tipico del periodo di Carnevale e, più in generale, della cucina napoletana.
Questa pasta era già ben nota nelle cucine degli Asburgo-Lorena cui apparteneva la regina. Casuale la sua invenzione attribuita a Cecilia Krapf, da cui prende l’originario nome tedesco di krapfen. La cuoca della corte austriaca avrebbe fatto cadere un po’ di impasto in una padella d’olio bollente, dando vita a questa leccornia che si diffuse in tutto il Nord Europa e nell’Italia Settentrionale. Una ciambellina oblunga con un pezzo d’impasto sopra l’altro, che ricorda un nastrino.
La diffusione nel Regno della “carne dei poveri”
Ingrediente principe delle graffe sono le patate, anch’esse diffusesi a Napoli proprio durante il Regno di Ferdinando IV. Benché note sin dalla scoperta delle Americhe, da cui erano state importate, fu grazie a Re Ferdinando che le patate giunsero sulla tavola e nella cucina napoletana. Il sovrano, infatti, tentò di contrastare e risolvere il problema della povertà con l’introduzione di un prodotto nutriente e al tempo stesso economico e che per questo motivo fu soprannominato “carne dei poveri”.
A questo periodo storico appartengono alcuni dei piatti più noti, come pasta e patate o il gattò (o gateau), la cui invenzione risalirebbe proprio alle nozze di Ferdinando con Maria Carolina avvenute nel 1768.
Oggi la cucina napoletana è apprezzata e riconosciuta e vanta Chef stellati e ristoranti rinomati. Ma il cibo già nel XVIII secolo diventò non solo fulcro centrale della cucina napoletana, ma momento essenziale della vita collettiva. Non è un caso che molte feste popolari culminassero con molte ghiottonerie legate ai premi messi in palio nel gioco della Cuccagna, o che Pulcinella, maschera-simbolo della città, fosse perennemente affamata. Lo stesso Giambattista Basile nel suo libro di fiabe napoletane, “Lo cunto de li cunti”, diede molta importanza alla cucina napoletana, descrivendo la partenza da Napoli di un suo personaggio come una nostalgia di proustiana memoria, fatta però di zeppole e migliacci, ma forse non di caffè.
Il caffè, dall’Oriente alle case dei napoletani, passando per Venezia
Oggi parte fondamentale della vita di qualsiasi abitante di Napoli, anche la notissima bevanda napoletana per antonomasia fu introdotta dalla Regina Maria Carolina. La sovrana ben conosceva il caffè, giunto nella Corte di Vienna direttamente dall’Oriente grazie ai mercanti veneziani, e lo fece servire durante un ballo alla Reggia di Caserta, nel 1771, in tazze fumanti e camerieri in livrea bianca: nascevano, così, i primi “baristi” del Regno di Napoli. Dai salotti di corte alle case del popolo il passo fu breve, e il rapporto dei napoletani con questo liquido scuro fu così simbiotico da diventare quasi un bene di prima necessità, al punto da non farne a meno nemmeno durante la seconda guerra mondiale. È proprio nel corso degli anni ’40 infatti che nacque l’usanza del “caffè sospeso”, pagare un caffè che il barista decide di destinare a chi non poteva permetterselo. Ma questa è un’altra storia.
Bibliografia:
La cucina napoletana, Maria Giovanna Fasulo Rak
Il credenziere di buon gusto, Vincenzo Corrado
Il re lazzarone, Giuseppe Campolieti
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