“Il vero genio – afferma Samuel Johnson – è una mente dotata di vaste capacità a cui, tuttavia, il caso sembra aver impresso una direzione particolare”.

In effetti quella di Vincenzo Tiberio, medico italiano laureatosi a Napoli sul finir dell’Ottocento, sembra essere per alcuni versi una storia che avanza danzando con i piedi del caso, che dalle fortunatissime e geniali intuizioni giovanili lo condussero prima ad una vita più ordinaria e poi ad essere dimenticato, analogamente a quanto accadde ai suoi scritti, ingialliti dal tempo e relegati agli scaffali polverosi degli archivi che accolsero il risultato dei suoi studi. Secondo attendibili e molteplici fonti, infatti, Vincenzo Tiberio anticipò di circa trentacinque anni gli studi di Alexander Fleming, ma di lui la società medica e scientifica non sembrò accorgersi se non in tempi molto più recenti. Riallacciare i nodi di una storia interrotta circa centotrenta anni fa risulta oggi un tentativo complesso ed insidioso, ma le poche tracce lasciate da Tiberio stesso insieme a ipotesi e successive ricostruzioni contribuiscono per lo meno a delineare un quadro plausibile delle vicende che animarono la sua vita e gli anni della formazione.

Vincenzo Tiberio foto
Vincenzo Tiberio

Dalle origini alla svolta definitiva

La storia impone tuttavia un balzo indietro nel tempo, al 1869 per la precisione, anno in cui a Sepino, un piccolo centro abitato in provincia di Campobasso, nacque Vincenzo Tiberio. La sua era una famiglia medio-borghese; lo status del padre Domenicantonio, che svolgeva l’attività di notaio, e della madre, proveniente da una famiglia dedita al commercio, gli garantirono la possibilità di completare prima gli studi liceali presso il capoluogo molisano e poi di intraprendere a Napoli quelli di medicina. Nel settembre del 1893, in anticipo di un anno rispetto al piano di studi, egli conseguì brillantemente la laurea per poi intraprendere una promettente carriera accademica in qualità di assistente ordinario presso l’Istituto di Patologia Medica Dimostrativa, ripartendo le proprie energie fra l’attività didattica, il lavoro presso un ambulatorio pubblico e la redazione del giornale scientifico “La Riforma Medica”. In questo periodo, inoltre, Tiberio pubblicò un vasto numero di recensioni relative a circa 180 lavori, tra cui quelli scritti di proprio pugno relativi al potere battericida di alcune muffe. Prima che terminasse l’assistentato egli vinse tuttavia un concorso che lo condusse lontano dalla ricerca, avvicinandolo invece alla Marina Regia presso cui fu assunto in qualità di Ufficiale medico.

Vincenzo Tiberio foto
Vincenzo Tiberio in uniforme

Perché arruolarsi? Perché abbandonare un ambiente che, seppur nell’arretratezza dell’Italia di fine Ottocento, prometteva di poterlo accogliere e dar spazio alla sua ricerca?

Difficile stabilirlo. Probabilmente giocò un ruolo decisivo il movente economico; da un rapido confronto si deduce infatti che all’epoca un comune medico della marina guadagnasse circa il triplo di un assistente universitario, ma non è neppur da escludere un profondo amor di patria, fomentato dagli ideali patriottici risorgimentali a cui era stata educata la prima generazione di Italiani nati dopo la costituzione dello stato unitario. Una vita frenetica dunque, fatta di irrequieti e repentini cambiamenti, ma tra tutti il più significativo fu senza dubbio quello che lo condusse a Napoli. In quegli anni Vincenzo Tiberio trovò soggiorno presso degli zii di Arzano, che abitavano in un edificio a corte centrale costruito secondo i dettami delle più antiche tradizioni locali. Apparentemente un dettaglio insignificante, ma fu proprio in quello spazio, più precisamente intorno al pozzo a carrucola, che il medico ebbe la più grande intuizione della sua vita.

Vincenzo Tiberio laboratorio
Vincenzo Tiberio in laboratorio

L’intuizione

Il pozzo era adoperato per la raccolta dell’acqua piovana, rendendola poi disponibile per tutte le necessità domestiche, incluso il consumo da parte degli abitanti della casa. L’umidità del luogo, tuttavia, favoriva la rapida proliferazione di muffe lungo le sue pareti, cosa che rendeva necessarie periodiche operazioni di pulizia. Accadeva però che in seguito ad ogni bonifica gli inquilini si ammalassero, contraendo per lo più infezioni intestinali; un indizio che non passò inosservato agli occhi dell’acuto e pacato osservatore Tiberio. Correva l’anno 1895 quando intuì il fenomeno dell’antibiosi di alcune muffe e, sebbene il loro potere antiinfettivo fosse già noto nell’antichità, il suo merito fu quello di aver portato a termine l’intero ciclo sperimentale: dall’osservazione iniziale sino alla dimostrazione del suo effetto in vitro e in vivo, oltre a un’ipotesi di meccanismo di azione.

Perché allora la sua scoperta non ebbe alcun esito ulteriore?

Anche in questa circostanza non esiste una risposta univoca. Alcuni ipotizzano che i pochi documenti esistenti, il carattere di Vincenzo Tiberio e la scelta di stendere il lavoro finale in italiano non abbiano di certo contribuito a conferire la giusta notorietà alle scoperte, seppur nella loro portata rivoluzionaria, ma la spiegazione più plausibile è forse da ricercare nel contesto storico e culturale italiano in cui visse ed operò il medico molisano. Sul tramontar del XIX secolo la cultura scientifica dell’epoca non era probabilmente matura a sufficienza per poter recepire il valore del suo lavoro ed analogamente le carenze della biochimica e della biologia molecolare risultavano essere notevoli.
Le conclusioni dei suoi studi furono pubblicate all’interno degli Annali di Igiene sperimentale, ma pochi lessero il fascicolo e degli effetti benefici delle muffe non si parlò più fino al 1929, quando A. Fleming spianò la strada verso le terapie antibiotiche. Solo nel 1947, due anni dopo l’assegnazione del Premio Nobel per la Medicina ad A. Fleming, fu però ritrovato in una biblioteca dell’ateneo partenopeo il fascicolo pubblicato anni prima da Tiberio e dal titolo Sugli estratti di alcune muffe, innescando un inedito interesse verso il suo operato.

Fleming era a conoscenza degli studi svolti da Tiberio? Gli esiti a cui era giunto il medico molisano erano riusciti a varcare i confini nazionali?

Quesiti poco interessanti se letti inforcando la lente ortodossa di chi intende meramente stabilire un primato fra i due. Più prezioso, invece, il tentativo di tramandare la memoria. È questo il modo migliore per onorare lo sforzo, la squisita genialità di una delle menti nostrane più rivoluzionarie, formatesi in un’epoca in cui chi sapeva metteva la propria conoscenza e le proprie capacità al servizio del bene comune e la minaccia rappresentata dalla fuga di cervelli era ben lontana dall’impoverire il nostro tessuto culturale.

-Daniele Nocera

Sitografia

https://core.ac.uk/download/pdf/71544355.pdf

https://www.focus.it/cultura/storia/tiberio-litaliano-che-scopri-la-penicillina-molto-prima-di-fleming

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