Dalle parti del Bosco di Capodimonte c’è una via, via Vincenzo Irolli.
Man mano che sale vero il Bosco, prima di congiungersi a via Capodimonte diviene stretta e solitaria, una lingua d’asfalto sempre più sottile. Ogni giorno qualcuno inciampa nelle irregolarità di quell’asfalto; ma pochi sanno chi fu questo Vincenzo Irolli.
La crudeltà dell’arte destina all’oblio molte più anime di quelle che accende: Irolli fu sempre vittima dei severi giudizi dei suoi contemporanei. Solo di recente, e con immensi sforzi, lo si sta riportando alla luce – luce in cui immergeva, come lo specchio di un lago d’estate, le popolane, i bambini e i fiori che riempivano i suoi quadri.
Vincenzo Irolli. Dalle origini all’Accademia
Vincenzo era originario di Calvizzano, e amò l’arte sin da bambino.
All’età di diciassette anni si iscrisse all’Accademia delle Belle Arti di Napoli. Era il 1877 e quel ragazzino fino ad allora autodidatta sarebbe finito in breve tempo nelle attenzioni stupite di grandi maestri come Gioacchino Toma, Federico Maldarelli, Stanislao Lista (maestro anche di Gemito) e Antonio Licata.
Iniziò così una frenetica produzione artistica. Nel 1878, appena un anno dopo aver iniziato i suoi studi in accademia, la sua opera Ritratto del pittore Izzo si guadagnò l’ammirazione del grande Domenico Morelli.
Un anno dopo espose Felice Rimembranza alla Promotrice di Napoli, e vinse un premio, diventando così noto al grande pubblico. Il suo intermediario per raggiungere quest’ultimo fu Ragozzino, un mercante d’arte molto apprezzato dalla borghesia napoletana, alla quale riuscì a sua volta a far apprezzare il giovane Irolli.
Da quel momento, iniziò per lui una carriera artistica e commerciale incredibile. Partecipò, nel 1889, con tantissimi altri artisti, alla decorazione del Caffè Gambrinus. In particolare, eseguì il quadro Piedirgrotta con una fanciulla in veste di Venere, nel quale un Cupido, disegnato chiaramente sul modello di uno scugnizzo, abbandona la lira e suona un putipù.
Il successo in Europa e la diffidenza dei critici italiani
Lo stile di Irolli iniziò ad essere apprezzato in Europa: espose a Monaco di Baviera, a Berlino e Parigi. In Italia, Irolli espose in varie occasioni, la più importante delle quali fu forse la Biennale di Venezia nel 1922.
Tuttavia, il pittore non incontrò mai il favore dei nostri critici, che nel primo dopoguerra iniziavano a guardare più che altro alle grandi avanguardie, bollando con eccessiva fretta le opere di Irolli come decorative e pregne di ammuffito tradizionalismo.
Se il panorama critico europeo (in particolar modo quello parigino) apprezzava tanto Irolli, gli intellettuali italiani, con un certo snobismo, lo ritennero così da destinare unicamente alle lodi della borghesia incolta.
Irolli non cambiò mai il suo stile per conquistare il favore della critica. Continuò a dipingere in particolar modo popolane e bambini, colti nell’immediatezza narrativa di scene quotidiane, e soggetti religiosi, giocando soprattutto con la luce.
Fu amico di Salvatore Di Giacomo e Ferdinando Russo, e benché forse consapevole del fatto che il suo stile ormai stesse lasciando il posto a un modo diverso di vivere ed esprimere l’arte pittorica, non volle mai abbandonare quelle scene e quella luminosità che tanto amava.
I suoi amici, e i suoi pochi, ma validissimi estimatori, raccontarono in molti scritti che fu fino all’ultimo giovanile, vivace, felice solo coi pennelli in mano.
Intorno ai primi del Novecento si era trasferito in una casa che poi fu sua fino alla morte, avvenuta a quasi novant’anni.
Quella casa era in via Cagnazzi. Non vi risulta familiare? Poco male: non esiste più. Oggi si chiama via Vincenzo Irolli.
Fonti e link utili di approfondimento:
Archivio Vincenzo Irolli
Identità insorgenti
Enciclopedia Treccani
Beatrice Morra
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