Qualche nostalgico ricorderà di sicuro la massa compatta di auto che come un tappeto si stendeva su Piazza del Plebiscito a ricoprirla quasi per intero. Correva l’anno 1963, infatti, quando il Consiglio Comunale, per far fronte ai problemi legati all’incremento del traffico in città e ai parcheggi in ambito urbano, decise di adibire Piazza del Plebiscito ad un’estesissima area di sosta. La Basilica di San Francesco di Paola, Palazzo Reale e, sullo sfondo, la cupola della Galleria Umberto I divennero in breve tempo il pregiato recinto di decine di autovetture, disposte ordinatamente sotto lo sguardo impotente delle opere di grandi maestri del passato. Chissà cosa avrebbero pensato i viceré spagnoli, Gioacchino Murat o Ferdinando IV di Borbone se solo avessero potuto affacciarsi o percorrere in quegli anni il loro amato “foro”.
Ebbene sì, quello di Piazza del Plebiscito è uno spazio che ha da sempre occupato un ruolo strategico nella maglia urbana della città, attirando l’attenzione di quei regnanti che maggiormente hanno voluto imprimere sul corpo di Parthenope il segno del proprio passaggio. Poco distante dal porto, ma non direttamente a picco sul mare, questo slargo ha rappresentato spesso uno di quegli avamposti urbani in grado di comunicare l’avvenuto accesso in città.
Da Piazza del Plebiscito il colpo d’occhio verso la città è infatti unico; lo sguardo riesce a trapassare la massa di edifici, palazzi e caseggiati per portarsi o in direzione della collina del Vomero, con la svettante mole di Castel Sant’Elmo e della sottostante Certosa di San Martino, o verso il mare, che lambisce le coste della città fino alle sue propaggini orientali.
Le origini di Piazza del Plebiscito
Nonostante la sua immediata riconoscibilità, ci fu tuttavia un tempo in cui l’aspetto e la denominazione di Piazza del Plebiscito furono ben diverse da quelle attuali; basti pensare, ad esempio, che in origine il suo nome coincidesse con quello di ‘largo di Palazzo’, espressione che ci riporta alla prima metà del XVII secolo, ossia in quell’epoca in cui risultò terminata la costruzione del Palazzo Reale, allora residenza ufficiale dei viceré spagnoli, costruita in continuità con il Vecchio Palazzo vicereale su volontà di Pedro Alvarez de Toledo e Zuniga verso la metà del secolo precedente. Un’opera di Gaspar van Wittel, padre del ben noto Luigi Vanvitelli, ritrae l’area in un famoso dipinto dedicato, in cui si percepisce non solo l’irregolarità del largo di Palazzo, ma anche la presenza di edifici religiosi, quali i conventi di San Luigi, di Santo Spirito e della Croce di Palazzo, ormai non più esistenti.
In tutti quei decenni l’area dello slargo non fu mai pavimentata, poiché impiegata per ospitare giostre di cavalieri, corride, cortei, spettacoli e feste pubbliche, che esaltavano la magnificenza reale e distoglievano l’attenzione della plebe dalla miseria delle loro vite. Con l’arrivo a Napoli nel 1683 del Viceré Don Gaspar de Haro y Guzmàn gli stessi apparati decorativi che ornavano Largo di Palazzo in occasioni di tali eventi acquisirono un’autonomia indiscutibile rispetto alle feste di cui inizialmente erano al servizio. La medesima linea fu adottata da re Carlo di Borbone, che, in vista della realizzazione di opere atte ad abbellire la capitale del Regno, era solito sperimentare preventivamente le nuove soluzioni architettoniche mediante modelli in scala e apparati effimeri, per poi trasformarli in opere durature qualora l’effetto sortito fosse stato adeguato alle aspettative.
La sistemazione del Largo di Palazzo
Le trasformazioni più considerevoli ebbero inizio a partire dal 1809, quando il Consiglio degli Edifici Civili bandì un concorso per la costruzione di un “Foro San Gioacchino”, dal nome di Murat. Nello spazio occupato da Largo di Palazzo il testo del bando prevedeva anche la costruzione di un’esedra che si dipartiva da un edificio centrale destinato ad accogliere un pantheon degli eroi nazionali. Antonio Laperuta e Antonio De Simone risultarono i vincitori della competizione con un progetto che implicò la demolizione dei già citati conventi di San Luigi, Santo Spirito e della Croce di Palazzo. A sud della piazza si ergeva invece Palazzo Acton, ristrutturato da Francesco Sicuro alla fine del XVIII secolo e adibito a residenza per i ministri di Stato. Per rispondere a quell’esigenza compositiva di simmetria, che conforma oltremodo l’intero progetto, fu avviata sul lato opposto la costruzione di un edificio identico che sarebbe stato adibito, una volta ultimato, a sede del Ministero degli Esteri e a foresteria.
Il ritorno di Ferdinando IV di Borbone
Conclusasi la parentesi francese e rientrato a Napoli Ferdinando IV di Borbone, quest’ultimo optò per la prosecuzione dei lavori, pur esigendo delle modifiche di natura prevalentemente simbolica più che compositiva o formale. Egli trasformò l’edificio centrale laico in un tempio dedicato a San Francesco di Paola, in segno di riconoscenza. Con il 1815 giunse poi il momento di un secondo concorso, bandito tramite il “Giornale delle Due Sicilie” e nel quale si richiedeva un progetto complessivo di sistemazione della futura Piazza del Plebiscito con la specifica richiesta di seguire le mura di fondazione già posate su indicazione dei precedenti progetti.
Tre furono le proposte selezionate da un’apposita commissione, ma il re non ne approvò nemmeno una, ricorrendo questa volta al parere di Pietro Bianchi, architetto molto in vista in ambito romano e segnalato da Antonio Canova. Egli non esitò a condividere l’operato del re, reputando tutte le proposta prive di attenzione nei confronti dei modelli del passato. Provvide poi in prima persona ad elaborare un nuovo progetto che fu approvato senza esitazione da Ferdinando IV in persona.
Il progetto definitivo
Il modello del Pantheon, già presente nelle proposte di diversi architetti napoletani, fu confermato dallo stesso Bianchi, il quale scelse tuttavia di organizzare i corpi esterni della chiesa disponendoli in una progressiva gerarchia di masse e volumi digradanti verso le ali dell’emiciclo. La mole dell’edificio centrale risulta inoltre dilatata dall’impiego di cupole minore, disposte lateralmente, e di un pronao esastilo in antis che si erge in posizione avanzata. L’architetto adottò inoltre l’ordine dorico per l’emiciclo e quello ionico per il pronao, accentuando i motivi di discontinuità tra le due parti attraverso l’impiego di differenti materiali: la pietra grigia di Pozzuoli per il primo e il marmo bianco di Carrara per il timpano e le colonne frontali.
Se a questo punto l’evoluzione del Largo di Palazzo può dirsi conclusa sotto il profilo compositivo, risulterà molto più difficile attribuirgli una specifica funzione sociale. Dopo il periodo di oblio durato fino al 1994, in cui, come specificato in apertura, Piazza Plebiscito fu impiegata come parcheggio, inizierà una lenta fase di recupero tutt’ora in atto. Significative sono state le sperimentazioni artistiche di cui questo luogo fu teatro, tra cui vale la pena ricordare le installazioni di Mimmo Paladino con la sua “Montagna del sale” del 1995 o quelle di Gianni Kounellis e Mario Merz.
Sebbene Piazza Plebiscito abbia ormai riguadagnato le sue forme originarie, resta ancora vivo il dibattito sulla necessità di un intervento sostanziale di rivitalizzazione dei suoi spazi. E’ forse questo uno di quei casi in cui per fare di una piazza un ‘luogo della socialità’ non basta concentrarsi solo su quel patrimonio materiale fatto di edifici, strade e percorsi, ma è forse necessario immaginare azioni che sappiano cogliere le esigenze della comunità cittadina e tradurle in interventi concreti.
-Daniele Nocera
Sitografia: http://www.unina.it/-/1345511-arte-a-cielo-aperto-a-piazza-plebiscito
https://sabap.na.it/da-largo-di-palazzo-a-piazza-del-plebiscito/
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