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Marcello D’Orta è stato l’autore di “Io speriamo che me la cavo”, uno dei libri più iconici della letteratura napoletana di fine Novecento, i cui estratti sono stati resi famosi soprattutto grazie alla trasposizione del libro nel film (dall’omonimo titolo) del 1992 diretto dalla regista Lina Wertmuller e interpretato da Paolo Villaggio. Maestro di scuola elementare, Marcello D’Orta è stato anche un prolifico scrittore ed autore di decine di libri.

Marcello D’Orta e la nascita del libro

Nato nel 1953 e cresciuto nel centro storico di Napoli in Vico Limoncello (nei pressi dell’anfiteatro di Nerone), Marcello D’Orta ha insegnato nelle scuole dell’hinterland napoletano per oltre 15 anni. E proprio dall’esperienza nella scuola elementare “Tiberio” di Arzano, piccolo comune in provincia di Napoli, che Marcello D’Orta trasse ispirazione per scrivere il suo best seller “Io speriamo che me la cavo”.

Il libro, pubblicato nel 1990, è una raccolta di sessanta sgrammaticati, colorati e vitalissimi temi scritti dai suoi alunni durante l’esperienza arzanese. Ricchi di espressioni dialettali e del gergo popolare, i temi vennero pubblicati senza subire correzioni di contenuto proprio per mantenere l’originalità, l’ingenuità, la freschezza e la profondità del messaggio che i bambini volevano trasmettere, evidenziarne i loro sentimenti e lasciare intatta la descrizione della realtà vista con i loro occhi.

La semplicità con la quale fenomeni come la prostituzione, camorra, contrabbando, abbandono scolastico e povertà vengono riportati nei temi è il valore aggiunto di questo libro che dipinge in maniera reale la Napoli degli anni Ottanta/Novanta. Qui il link Amazon.

Dal libro al film

Dopo aver avuto un enorme successo editoriale con circa 2 milioni di copie vendute ed essere stato tradotto anche in altre lingue, il libro ha avuto anche una trasposizione cinematografica sotto la regia di Lina Wertmuller (unica donna nella storia ad essere candidata all’Oscar come migliore regista per il film “Pasqualino Settebellezze” nel 1977).

A differenza del libro che è ambientato ad Arzano, il film è ambientato a Corzano (nel film è in provincia di Napoli, ma nella realtà è un paesino in provincia di Brescia) ed è girato quasi interamente nel Borgo Antico di Taranto (una scena venne girata a San Giorgio a Cremano e una alla Reggia di Caserta).

La pellicola è liberamente ispirata al libro (molti dialoghi del film sono stralci dei temi contenuti nel libro stesso) e vede come protagonista un insegnante di storia del Nord, Marco Tullio Sperelli (interpretato da Paolo Villaggio) che, per un errore del Ministero dell’Istruzione, non viene mandato ad insegnare a Corsano (comune in provincia di Genova), ma alla scuola “De Amicis” di Corzano.

L’integrazione iniziale del maestro nel paese è difficile e ancor più i tanti ostacoli da superare: comunicativi (la maggior parte delle persone parla in napoletano), sociali (la criminalità aleggia in tanti aspetti della vita quotidiana del paese) e lavorativi (pessima gestione del plesso da parte del bidello e della direttrice, alunni spesso maleducati e provenienti da famiglie povere e disagiate).

Nonostante le difficoltà, il maestro riesce ad adeguarsi all’ambiente e crea un eccezionale connubio con i propri alunni, i quali lo saluteranno persino commossi alla stazione quando il maestro ripartirà verso Nord, per andare ad insegnare a Corsano.

La scena finale del film, con la commovente colonna sonora del film “What a wonderful world” di Louis Armstrong, vede il maestro leggere nel treno un tema del suo alunno Raffaele Aiello (interpretato da un giovanissimo attore Ciro Esposito), e la cui frase finale, dà il titolo alla pellicola.

“Io preferisco la fine del mondo, perché non ho paura, in quanto che sarò già morto da un secolo. (…) I buoni rideranno e i cattivi piangeranno, quelli del purgatorio un pò ridono e un pò piangono. I bambini del Limbo diventeranno farfalle. Io speriamo che me la cavo.

Stazione Taranto Marcello d'Orta
Uno scorcio dei vicoli della stazione di Taranto, dove girarono una scena del film di Marcello d’Orta. Fotografia di Federico D’Addato

La scrittura come medicina per l’anima

Dopo l’enorme successo di “Io speriamo che me la cavo”, Marcello D’Orta si è dedicato per oltre 20 anni alla scrittura, pubblicando tanti libri: “Dio ci ha creato gratis” (1992), “Romeo e Giulietta si fidanzarono dal basso” (1993), “Il maestro sgarrupato” (1996), “Nessun porco è signorina” (2008), “Era tutta un’altra cosa” (2012), “Cuore del Duemila” (2013), “Aboliamo la scuola” (2010), “Maradona è meglio ’e Pelé” (2002), “Nero napoletano” (2004), “Fiabe sgarrupate (2005), “Cuore di Napoli”(2013).

In un’intervista del 2012, Marcello D’Orta dichiarò di aver trovato l’antidoto contro il suo male (gli venne diagnosticato un tumore qualche mese prima): “Quando, alcuni mesi fa, mi fu diagnosticato un tumore, il primo pensiero fu: la monnezza. È colpa, è quasi certamente colpa della monnezza se ho il cancro. (…) A chi devo dire grazie? Certamente alla camorra. I rifiuti si accumulano perché la camorra impedisce di raccoglierli, sabota gli impianti di raccolta, fa scioperare i netturbini, corrompe i funzionari dei controlli. Da noi la monnezza ha dimensioni ciclopiche. Il tumore contro il quale combatto rischiava di piegare la mia dignità, di rendere buie le mattine che si aprono davanti alla mia finestra, nella mia casa del Vomero. Buie come quelle che spesso quando ero piccolo, nel Vico Limoncello, nel cuore della città antica, vivevo come un incubo… Ma a quei tempi c’era un motivo “fisico”. Nel senso che la stradina era così stretta che la luce del sole non filtrava e in una famiglia con dieci componenti era anche complicato conquistarselo lo spazio. Ora rischio di non vederla più perché il male è duro da combattere. Ma penso di aver trovato l’antidoto giusto: scrivere, scrivere, scrivere… Troppi libri in un anno? Forse. Ma la scrittura è la mia vita. Quella che l’anno scorso stava per lasciarmi. Basterà? Credo di sì. Perché per la malattia fisica possono, quando possono, qualcosa i medicinali. Per il male dell’anima la scrittura può essere un ottimo farmaco”.

Marcello D’Orta morì di tumore all’età di 60 anni, lasciando l’eredità di un libro e una pellicola che sono diventati un cult: le battute in lingua e alcune scene del film sono iconiche ancora oggi, alcune diventate addirittura parte del gergo popolare adolescenziale. Gli stralci del film circolano tutt’oggi sui social e ricevono ancora tantissime visualizzazioni ovunque vengano pubblicati.

Questa storia è dedicata a Angela Cagna per la sua donazione che ci permette di continuare le nostre attività di ricerca. Sostieni anche tu Storie di Napoli!

Fonti: Estratto intervista: www.ilgiornale.it

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