Giuseppe Moscati fu l’incredibile punto d’incontro fra religione e scienza. La mano della sua statua nella chiesa del Gesù Nuovo è ancora oggi accarezzata da centinaia di persone in attesa di una grazia, un aiuto, un incontro nel mondo dei sogni.
Il suo incontro con la medicina fu tanto voluto quanto fortuito: il padre lo voleva avvocato. Fortunatamente non andò così!
A distanza di quasi un secolo dalla sua morte continua ad essere l’uomo invocato da tutti i malati. Probabilmente, se Moscati potesse trovare il modo di usare ancora gli strumenti medici, opererebbe pazienti anche dall’oltretomba.
Nasce proprio così il culto di un uomo amato in tutta Italia, che era chiamato “santo” anche quando era in vita perché riusciva a fare diagnosi in pochi istanti e curava i pazienti senza mai pretendere denaro. Anzi, spesso era lui stesso a pagare i medicinali: questo fu un esempio che diede anni dopo anche il dottor Agrillo, il medico di Fuorigrotta.
Fu anche uno scienziato eccezionale, grazie alle sue pubblicazioni e alle sue attività di ricerca.
Giuseppe Moscati, un avvocato mancato
Beneventano di nascita e napoletano d’adozione, è figlio dell’eccezionale scuola medica sannita, che ha prodotto alcuni dei migliori medici del XX secolo: Cardarelli, Pascale, Capozzi, Leonardo Bianchi, Gaetano Rummo e tantissimi altri. Era una persona dallo sguardo serio e profondo, parlava con parole semplici e rassicuranti, cercava di
In realtà, però, la sua carriera cominciò con grandissimo disappunto del padre, che era un importantissimo magistrato.
Nel 1888 Francesco Moscati, un distinto e severissimo galantuomo di fine ‘800, fu promosso presso la corte d’assise d’appello di Napoli e si trasferì nel capoluogo con la famiglia. Il giovane Giuseppe fu quindi iscritto al Liceo Vittorio Emanuele, dove si distinse come alunno modello: tutta la famiglia non vedeva l’ora di iscriverlo alla prestigiosissima facoltà di Giurisprudenza di Napoli, magari immaginando una carriera da brillante avvocato come Conforti o come il leggendario Nicola Rocco.
Il figlio si rifiutò. Il padre andò su tutte le furie, ma morì stroncato da un infarto quando il giovane Giuseppe aveva appena 17 anni. Questo episodio cambiò radicalmente il carattere del ragazzo, che diventò cupo e silenzioso. Arrivarono poco dopo altri due lutti in famiglia: morì nel 1904 il fratello Alberto dopo un lunghissimo travaglio durato 10 anni: era infatti caduto da cavallo nel 1892 e il trauma cranico lo aveva reso disabile e soggetto a continue crisi epilettiche.
Il giovane Giuseppe, al ritorno da scuola, passava giornate intere in compagnia del fratello e la sua morte improvvisa, a pochi mesi dalla laurea in medicina, lo avvicinò ancora di più alla religione e gli diede la conferma della bontà della sua scelta: avrebbe dedicato la vita intera alla cura del prossimo, non voleva più sentirsi impotente davanti al destino.
“O morte, sarò la tua morte!” diventò il suo motto di vita.
Il “medico povero”
Giuseppe Moscati era soprannominato “medico anargiro”, dal greco “anargyros”, senza soldi, nonostante fosse docente all’Università di Medicina, primario nell’Ospedale degli Incurabili e libero professionista quando non era assorbito dai suoi compiti accademici od ospedalieri. Nutriva infatti un amore immenso verso i malati e i poveri, ai quali dedicava intere giornate: ogni mattina si svegliava prestissimo per visitare gratuitamente i residenti più poveri dei Quartieri Spagnoli e di Forcella, poi prendeva servizio all’Ospedale degli Incurabili e finiva la giornata pregando nella chiesa del Gesù Nuovo.
Addirittura, quando incontrava casi particolarmente complessi, prendeva talmente a cuore la sorte dei suoi pazienti da non dormirci la notte. E non voleva nessun onorario, anzi, spesso era lui stesso che pagava i medicinali e le cure alle persone che non potevano permettersele.
Questa filosofia fu riassunta in un motto di vita: “chi ha, metta. Chi non ha, prenda“. Lo scrisse su un cartello davanti al suo studio, in una modesta casa di Via Cisterna dell’Olio, e poggiò un cappello nel quale i pazienti più ricchi avrebbero dovuto mettere i soldi della propria parcella. Il ricavato era destinato ai più poveri, come atto di solidarietà.
Tecnologia? No, grazie!
Tanto amore verso il prossimo e tanta passione verso la religione avevano anche lati negativi. Giuseppe Moscati aveva un carattere chiuso e moralista: spesso, chiacchierando con i suoi pazienti, spiegava di essere contrario ad ogni sorta di abitudine moderna. Odiava il cinema, il teatro, le automobili e i pomeriggi dell’alta borghesia passati a chiacchierare fra i tavoli del Gambrinus. Proprio per questa ragione fu un uomo particolarmente solitario nella vita privata e non ebbe nessuna relazione sentimentale perché considerava le donne del suo tempo “troppo frivole“.
Non dobbiamo però immaginare un santone con il camice o un estremista: l’attività accademica del medico beneventano fu intensissima, con studi sulla chimica biologica, conferenze internazionali e numerose collaborazioni con il Comune di Napoli in ambito di consulenze sanitarie: fu lui ad occuparsi, a soli 31 anni, della gestione dell’epidemia di colera del 1911. Poi Antonio Cardarelli, uno dei massimi luminari d’Italia, lo propose come socio onorario della Reale Accademia Medico-Chirurgica, di cui diventò il socio più giovane di sempre.
Ma Giuseppe Moscati non fu solo un uomo di fede che “vedeva Gesù Cristo in tutti i pazienti“. Fu uno scienziato di primo piano, promosse studi sulla tubercolosi e sul colera. Durante la sua attività universitaria ricevette numerose richieste di trasferimento all’estero, ma non volle mai muoversi da Napoli perché era convinto di fare un torto ai suoi pazienti che, ogni giorno, a centinaia si accalcavano davanti alla porta del suo studio. Un po’ come un altro luminare dell’epoca, Mariano Semmola.
O morte, sarò la tua morte!
Giuseppe Moscati era un essere umano e, come tutti gli uomini, aveva limiti e debolezze fisiche. Questa cosa lo irritava parecchio, perché l’unica cosa che invidiava alla tecnologia era l’energia infinita: avrebbe voluto lavorare 24 ore al giorno, senza mai perdere un solo secondo. Fece affiggere nell’obitorio il cartello con il suo motto: “o morte, sarò la tua morte!”.
Arrivò nel 1925 un esaurimento nervoso, ma il medico ignorò i sintomi del corpo che chiedeva riposo. Intensificò ancora di più gli appuntamenti, le preghiere e le attività accademiche per formare i futuri medici di Napoli. Ogni giorno, prima di andare ad operare all’Ospedale, si fermava in chiesa per pregare, poi si intratteneva in lunghe chiacchierate con i suoi praticanti. Ma le occhiaie e il corpo sempre più debole tradivano.
Arrivò poi il pomeriggio del 12 aprile 1927. Fuori allo studio c’era, come al solito, una fila di poveri in attesa della visita, ma le porte non furono mai aperte.
Moscati era morto a soli 46 anni, portato via da un malore causato dal troppo stress. Si racconta che le persone cominciarono a gridare “È morto il medico santo!”.
Per vederlo davvero santificato dovremo aspettare il 1987, 60 anni dopo la sua morte. Ma non c’è dubbio che, anche dopo la fine del suo corpo terreno, Giuseppe Moscati abbia continuato ad assistere tutte le persone che hanno continuato a invocarlo dopo la morte come un vero e proprio santo miracoloso, in cerca anche solo di una semplice rassicurazione nell’animo.
Si può visitare ogni giorno lo studio di Moscati all’interno della Chiesa del Gesù Nuovo.
-Federico Quagliuolo
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Riferimenti:
Beatrice Immediata, Giuseppe Moscati, un uomo, un medico un santo, Paoline Edizioni, 2016
https://www.vatican.va/news_services/liturgy/saints/ns_lit_doc_19871025_moscati_it.html
https://www.liceovittorioemanuelegaribaldi.edu.it/giuseppe-moscati-allievo-1880-1927-/
https://www.treccani.it/enciclopedia/santo-giuseppe-moscati_(Dizionario-Biografico)/
http://www.santiebeati.it/dettaglio/77850