La tavola in Italia è luogo di trattative, amicizie, lavoro, cultura. Lo sapevano bene i giovani intellettuali napoletani del secolo passato, che decisero di fondare la “Società dei Nove Musi” in una osteria di Piazza Dante, che diventò la “base segreta” di un gruppo di amici che diventò anni dopo il jet set della cultura napoletana del ‘900.
Il nome nacque per “storpiare” scherzosamente il senso delle nove muse greche, che erano i simboli del sapere.
Il senso di questa iniziativa? Parlare di cultura e celebrare l’uscita dei nuovi libri con una bella mangiata. E se i partecipanti erano Benedetto Croce, Salvatore Di Giacomo o Enrico de Nicola, le feste erano davvero parecchie.
La tavola in Italia: una cosa seria
In Italia le riunioni di lavoro sono sempre fruttuose quando si svolgono a tavola, fra un ristorante sul mare e un contratto ben piazzato. Ma anche lo sport è nato davanti a una bella pizza: la prima squadra di calcio a Napoli nacque in una trattoria del Centro Storico. Così la cultura, che viaggia fra le tavole dei re di Polonia che ci ha regalato il nostro babà fino ai club di letteratura, che ancora oggi sono vivacissimi in tutta la città.
Nel caso della letteratura napoletana, l’epoca d’oro ci fu fra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900, con la vivace vita in città di tanti personaggi che hanno scritto la Storia. I punti di ritrovo erano la Galleria Umberto e il Gambrinus dal lato “nuovo” della città, mentre sul lato antico si svilupparono numerosi caffè letterari a Piazza Dante e a Port’Alba, complice anche la presenza di numerosi librai e stamperie fra cui la Libreria di Luigi Pierro, editore di Salvatore Di Giacomo e Ferdinando Russo. Fra gli altri, fu anche editore di Emile Zola, Matilde Serao, Roberto Bracco, Eduardo Scarpetta e Gabriele D’Annunzio.
La buona letteratura andava di pari passo con la buona forchetta ed è per questa ragione che, su consiglio di Salvatore Di Giacomo (che scrisse anche un saggio chiamato “Taverne famose napoletane”), la Società dei Nove Musi nacque nell’osteria di Pallino, che si trovava al Vomero, quartiere da poco costruito, precisamente a Via Tasso.
Era un ristorante nato dalle mani di Nicola Micera, cuoco pugliese che servì prima i Borbone e poi tutte le famiglie nobiliari napoletane: avendo il vizio di mangiare parecchio, era soprannominato “pallino” per la forma del suo corpo, anche se il suo regime alimentare gli.
Ci racconta Massimo Gatta che la sua trattoria era talmente famosa che Ferdinando Russo la celebrò nel poema “‘n paraviso“:
Che ghiurnate! Che delizie!
Ferdinando Russo, ‘n nparaviso
Chille fritte addu Pallino!
Io che te vasavo mmocca
quanno tu mettive ‘o vino!
La Società dei Nove Musi: i “golden boys” di Napoli, fra spaghetti e cultura
L’idea della Società dei Nove Musi nacque nel retrobottega della Libreria Pierro, in una chiacchierata fra Benedetto Croce, che all’epoca aveva 24 anni, e Salvatore Di Giacomo, che di anni ne aveva 30: parlavano della necessità di creare un circolo culturale che riunisse i migliori giovani di Napoli. Fu presto detto: i due riunirono i gli amici che credevano e, su consiglio di Don Salvatore, decisero di andare tutti a pranzo.
Di Giacomo aveva infatti solo 24 anni e, contro ogni volere della famiglia, era da poco fuggito dalla facoltà di medicina per intraprendere una carriera da poeta e giornalista. L’unica passione mai rinnegata, però, era quella del buon cibo. E gli amici lo consideravano affidabile come un Tripadvisor ante litteram.
Davanti a uno squisito scarpariello, il buon Benedetto Croce inaugurò l’apertura di una nuova “setta“, con tanto di simbolo araldico: una forchetta e un coltello incrociati su un foglio bianco. La stesura dello statuto fu affidata proprio al filosofo napoletano, che diede una regola perentoria:
La Società dei Nove Musi non può riunirsi che a tavola
Seduti accanto a lui, sotto gli occhi dell’oste Pallino jr, figlio del Cavalier Pallino morto nel 1860 a quasi cent’anni, c’erano un giovane Enrico De Nicola, futuro Presidente della Repubblica, Francesco Saverio Nitti, padre costituente, Michelangelo Schipa, storico, Vittorio Spinazzola, archeologo, Vittorio Pica, critico d’arte, Michele Ricciardi, avvocato e direttore del Pungolo Parlamentare, Carlo Petiti, giornalista e scrittore, Onorato Fava, scrittore e poeta, Francesco Cimmino, poeta e orientalista.
Nel 1892 si aggiunse poi lo storico e scrittore ventinovenne Giuseppe Ceci, che fu salutato con una frase scherzosa: “Al grato arrivo di Peppino Ceci, i Nove Musi diventarono Dieci“.
Si riunivano a pranzo, sempre nell’osteria di Pallino. Chi organizzava la mangiata aveva l’obbligo di offrire il pranzo a tutti e poi, durante il pasto, si festeggiava la pubblicazione di un articolo o di un romanzo con la lettura agli astanti dell’incipit dell’opera o dei versi di una poesia.
Nacquero i primi problemi: c’erano autori estremamente prolifici, come Onorato Fava e Croce, ed altri che festeggiavano meno pubblicazioni, come Ceci: in quel caso fu deciso che le penne fertili pagavano un pranzo ogni due pubblicazioni, mentre quelli che scrivevano di meno pagavano due pranzi per libro.
E così anche i litigi nati dalle normali differenze caratteriali di un gruppo tanto eterogeneo, venivano dimenticati al terzo bicchiere di vino o davanti a un eccellente spaghetto alle vongole veraci.
Le cose belle non durano per sempre
Il ristorante Pallino chiuse nel 1894 a causa della cecità del titolare. Vincenzo Micera riaprì le cucine un anno dopo per le insistenze dei suoi ex clienti e usò il nome di Pallino 3, ma l’attività durò molto poco e si concluse nel modo più italiano possibile, come in una commedia di teatro: a tavola, con un pranzo gigantesco in cui furono invitati dal signor Pallino tutti i suoi clienti più affezionati: i ragazzi della Società dei Nove Musi, Matilde Serao, Roberto Bracco, il ministro Emanuele Gianturco, Edoardo Scarfoglio e diverse altre personalità dell’epoca che non ci sono giunte nelle cronache ma che, fra le canzoni dei posteggiatori, il vino e la cucina infinita di Pallino, passarono una giornata indimenticabile.
La Società dei Nove Musi, senza più una sede, durò poco meno di una decina di anni e i membri che ne fecero parte furono sempre gli stessi. Le strade si divisero poi per questioni lavorative e private, ma gli ex membri mantennero sempre una fortissima amicizia anche quando, una volta adulti, diventarono parte della classe dirigente di Napoli e dell’Italia.
-Federico Quagliuolo
La storia è dedicata a Simona Balzi per la sua generosa donazione. Sostieni anche tu Storie di Napoli!
Riferimenti:
http://www.letteraturadimenticata.it/Fava.htm
Massimo Gatta, Bibliofilia del Gusto, dieci itinerari tra libri, letteratura e cibo, Biblohaus, 2007