Sorse proprio a Napoli, negli anni che inaugurarono le imprese coloniali dell’allora giovane Regno d’Italia, la Società Africana d’Italia, il cui scopo era fare da tramite tra i territori d’oltremare occupati e l’Italia, attraverso dei bollettini che trattavano di questioni politiche e culturali, ma anche di botanica e di sanità. La società fu promotrice di spedizioni e di importanti dibattiti sulle tematiche coloniali.
La fondazione e le prime imprese coloniali del Regno d’Italia
In una posizione strategica, presso “la porta del Mediterraneo“, la Società Africana d’Italia in realtà assunse questo nome solo nel 1882, fino a poco prima si chiamava “Club Africano“. In breve tempo dalla sua fondazione, avvenuta per mano di esponenti dell’elite culturale napoletana, vide aderire presto anche parlamentari e accademici italiani, che collaborarono attivamente al progetto.
La sede storica della socità era a via Duomo, al civico 219, in un’area di Napoli che, in quegli anni, stava subendo importanti cambiamenti, per via delle questioni del Risanamento.
La scelta di fondare questa società a Napoli non fu casuale: infatti, ben prima dell’avvento del fascismo, lo Stato tenne conto della centralità della figura di Napoli in un’efficace propaganda colonialista: la città, oltre a possedere uno dei porti più noti d’Italia, è ancora oggi sede dell’Istituto Orientale, la più antica scuola di orientalistica d’Europa, il luogo ideale dove iniziare degli studi sulle “terre italiane d’oltremare“.
Fondata la Società Africana d’Italia, questa fu organizzatrice di alcuni dei più importanti incontri a tema colonie di quel tempo, come, nel 1885, la “I Conferenza coloniale“.
Un punto fondamentale per la diffusione della “cultura coloniale” è stato senz’altro sancito dalla rivista “Africa Italiana“, una pubblicazione trimestrale, che si occupava di riportare nel dettaglio aspetti delle più disparate tematiche inerenti le colonie d’Italia, tra le tipologie di piante (come la celebre palma di piazza Vanvitelli) ed animali descritti dagli esploratori, gli aspetti paesaggistici, le prospettive di sviluppo economico e sociale, anche in relazione alla vicinanza con possedimenti di altre grandi potenze europee e le problematiche della popolazione locale e dei “nuovi abitanti” di quelle terre lontane.
Con l’avvento della prima guerra mondiale, le questioni delle colonie passarono in secondo piano agli occhi del governo e dei media del tempo, a tal punto che la Società Africana d’Italia subì importanti tagli ai fondi e fu costretta a ridimensionarsi molto.
Il fascismo e la nuova vita della Società Africana d’Italia
Quando Mussolini riaprì il discorso coloniale, nel primo dopoguerra, la Società Africana d’Italia fu uno strumento prezioso: il nuovo scopo non era più accrescere il bagaglio culturale di una nicchia di intellettuali ed accademici, bensì portare la cultura coloniale a tutti. Questo fu possibile, grazie ad importanti aiuti economici statali, che permisero alla SAI di organizzare nuove conferenze e nuove pubblicazioni. Inoltre, venne lanciata una nuova campagna di spedizioni esplorative.
Tuttavia, la SAI non ebbe solo vantaggi dal governo fascista: la volontà di accentramento del potere di Mussolini portò alla fondazione dell’Istituto Coloniale Fascista (ICF), con sede a Roma. La Società fu accorpata e ne divenne una sezione. Da qui vide limitate le proprie possibilità di effettuare pubblicazioni, così come la possibilità di mantenere l’ampia rete di contatti internazionali instaurati nei cinquant’anni di attività prima di quel drastico cambiamento. Inoltre, la vasta biblioteca a tema coloniale di cui si era dotata la SAI fu smantellata e ceduta all’Istituto Orientale.
L’aspetto di divulgazione culturale fu sempre più schiacciato dalla propaganda che i membri della Società erano oramai obbligati a fare. La Società fu così snaturata che ebbe perfino una parentesi come organizzatrice di crociere per i la Gioventù Universitaria Fascista (GUF)!
Dopo travagliate vicende burocratiche e dissensi tra il governo e i membri della SAI, il direttore della società riuscì a convincere l’allora ministro delle colonie, Emilio De Bono, a restituire autonomia al progetto. Ricominciarono, così, le pubblicazioni di “Africa Italiana“. Ma fu solo un “premio di consolazione”, in quanto la Società Africana d’Italia fu sempre meno attiva.
Al seguito della conquista dell’Etiopia, in tutta Italia sorsero numerose società a scopo prevalentemente propagandistico nei riguardi delle colonie africane, mortificando ulteriormente il ruolo della Società Africana d’Italia, che vedeva ora marginalizzato anche questo ruolo di ripiego. Ulteriore duro colpo lo ebbe con la fondazione della “Mostra triennale delle terre d’oltremare“, in quanto si mirò sempre più ad un fine propagandistico più che culturale.
La Società Africana d’Italia dei giorni nostri
Cessata la seconda guerra mondiale, la Società Africana d’Italia riuscì a sopravvivere, nonostante la perdita delle colonie da parte del nuovo Stato italiano, fino al 1975. Ma la tribolata storia della Società non termina qui: infatti, nel 1980, con il tristemente famoso terremoto, la sede subì un crollo, che mise a rischio buona parte del patrimonio conservato.
La vasta quantità di materiale, tra testi e reperti di interesse zoologico, botanico ed etnografico, recuperati dalla SAI nel corso di 95 anni di attività, fu stanziata temporaneamente nella Mostra d’Oltremare, ma recentemente è stata raccolta e preservata grazie all’Istituto Orientale di Napoli, che, nel 2014, ne ha realizzato un museo.
-Leonardo Quagliuolo
Grazie al dott. Matteo Delle Donne per le utili informazioni fornitemi.
Per approfondire:
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