caffè regola delle tre C
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Nel 1977, nell’album Terra mia, Pino Daniele omaggia con la sua ‘Na tazzulella ‘e cafè un altro monumento della napoletanità: il caffè, che non si può prendere senza seguire la “regola delle tre c”.

Un po’ come il pomodoro che sebbene non sia nativo di queste parti è uno dei re incontrastati dell’iconografia e della cultura all’ombra del Vesuvio. Inutile girarci intorno: il caffè a Napoli è diverso rispetto ad altre parti del mondo.
Un rituale quasi sacro, amalgamato ad un territorio che nei secoli ha saputo accoglierlo, apprezzarlo, esaltarlo.
Tanto che nel 2020 si decise di candidarlo a patrimonio immateriale dell’umanità UNESCO.

Dall’Etiopia a Venezia: il viaggio del caffè nei secoli

Nata sugli altipiani di Kaffa in Abissinia e scoperta probabilmente tra il X e il XI secolo, la pianta del caffè iniziò a compiere il suo lungo viaggio fin da subito. Passò dapprima dallo Yemen, dove i suoi chicchi venivano mangiati crudi e successivamente con frutti e foglie. Finchè non ci si rese conto che erano in grado di infondere energia, tanto che si iniziò a farli assumere ai guerrieri.

Dopo qualche secolo, in ambiente islamico, la bevanda ricavata dalla pianta del caffè, il qahwahI, ebbe una notevole diffusione, favorita dal fatto che la religione di Maometto non consentiva di bere vino e altre bevande alcoliche.

Con la conquista di Costantinopoli da parte di Mahmet II nel 1453, il caffè cominciò ad avvicinarsi all’Europa. In primo luogo attraverso Venezia, che avendo stretti contatti con l’Oriente intercettò la bevanda per prima. Tanto che nel 1683 fu aperta lì la prima bottega italiana che rivendeva tale prodotto.

Prima di poter essere appannaggio di tutti, però, la bevanda dovette passare per il vaglio della Chiesa a causa delle sue proprietà eccitanti: Papa Clemente VIII volle provarlo di persona e decretò che esso non avevo nulla di peccaminoso.

L’arrivo alle pendici del Vesuvio

È storia dibattuta come la bevanda arrivò a Napoli. Ufficialmente sappiamo che le caffetterie iniziarono a fioccare a Napoli in pieno Settecento, in quanto la regina Maria Carolina d’Asburgo volle importare la tradizione del Kaffehaus viennese.

In realtà, però, sembra che il caffè fosse già abbastanza noto nel Medioevo, in quanto citato tra i rimedi della Scuola medica salernitana, in cui si raccomandava di assumerlo alla fine del pranzo, un pò come avviene oggi.

La bevanda si impose definitivamente tra il Settecento e l’Ottocento con l’affermazione della borghesia e l’istituzione di quei locali in cui intellettuali, artisti e commercianti erano soliti riunirsi e dove venivano composte poesie, canzoni e articoli di giornali.

La “cuccuma” e la regola delle tre C

L’Ottocento fu il secolo dell’invenzione della “cuccuma“, la celeberrima caffettiera napoletana, che consentiva di preparare l’ormai amatissima bevanda anche in casa. In realtà questa “macchinetta” fu inventata da un francese, tale Morize, nel 1819, ma ebbe successo proprio a Napoli, dove i transalpini la fecero da padrone per un decennio.

Nella metà del XX secolo fu escogitata la piu’ pratica moka e la cuccuma andò in soffitta. Nonostante ciò, Eduardo De Filippo la eternalizzò nel suo celebre monologo in Questi fantasmi”, dispensando consigli su come preparare un caffè come si deve, seguendo piccole e norme ben precise.

Eduardo De Filippo – “Questi fantasmi” – regola delle tre c

Una di queste è senz’altro la cosiddetta “regola delle tre C” di come va servito il caffè napoletano: “caldo, comodo e carico”. E quando si afferra la tazzina occorre esclamare altre tre “C”, quelle dell’imprecazione “Comme cazzo coce!”, ovvero “Quanto scotta!”. Il motivo plausibile c’è, poichè è tra gli 88 e 90 gradi che il caffè sprigiona tutte le sue caratteristiche migliori in quanto ad aroma, profumo e sapore. L’acqua vulcanica di Napoli e dintorni fa il resto.

“E’ come offrire un caffè al resto del mondo”: il caffè sospeso

Legata alla bevanda è una tradizione che per fortuna il tempo non ha scalfito: è la pratica del caffè sospeso, ovvero lasciare una tazzina pagata per il cliente del bar che verrà dopo e che magari non può permettersela. Una consuetudine molto in voga nel dopoguerra e tornata in auge dopo il successo di una delle ultime pubblicazioni di Luciano De Crescenzo, per il quale pagare un caffè per un’altra persona sconosciuta e non abbiente “È come offrire un caffè al resto del mondo”.
L’ennesima prova della grande umanità di Napoli.

Fonti

“Le incredibili curiosità di Napoli” – Marco Perillo

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