L’Italsider è uno stabilimento siderurgico di Bagnoli che è stato testimone di due guerre mondiali e del boom economico del paese. Eppure oggi è un edificio di ruggine abbandonato che deturpa il paesaggio del quartiere.
Gli inizi dell’Italsider
Lo stabilimento siderurgico inizia la propria attività nel 1910 con circa 1200 operai al suo interno. Inizialmente era chiamata Ilva. Durante il periodo bellico, lo stabilimento assunse altri operai arrivando circa a 2500 lavoratori che aiutavano il paese.
Nel 1918 nacque la grande Ilva, una società con un programma molto ambizioso, ossia quello di accentrare e controllare direttamente le industrie siderurgiche. Questo piano, però, per quanto lungimirante, non ebbe grandi risorse economiche per svilupparsi. L’Ilva si indebitò e fu costretta a chiudere. Fu riaperta solo successivamente per volere del governo fascista nel 1924.
Per il Fascismo lo stabilimento doveva essere convertito in termini di produzione ad una delle industrie più produttive del paese arrivando nel 1937 a superare circa 4000 dipendenti. La guerra però produsse molti danni agli impianti, soprattutto quelli inferti dai tedeschi in ritirata. Per far fronte al mantenimento dell’Ilva, gli operai impiegati furono limitati a 800 unità.
Gli anni 60′ e l’inizio del calo di produzione
Nel 1964 lo stabilimento assunse il nome di Italsider, diventando una produzione nazionale in quanto esistente su tutto il territorio: Napoli, Taranto, Genova, Trieste, Savona. Negli anni ’60 si pensò di poter rilanciare l’Italsider come una delle industrie più proficue d’Occidente, ma questo non accadde.
Il risultato di questi tentativi fu che l’industria dovette ridimensionarsi ed ebbe il primo calo produttivo dalla sua nascita. La decisione di ampliare l’impianto di Taranto costò caro allo stabilimento di Bagnoli che si avvicinava sempre di più alla sua chiusura definitiva.
Si diede la possibilità allo stabilimento di Bagnoli, dopo duri scontri tra sindacati, amministratori e operai, di sostituire i vecchi impianti con altri nuovi, più ecologici e funzionali, dando vita ad una speranza di rilancio produttivo, aspettativa però tradita.
La chiusura dell’impianto
L’impianto iniziò a costare tanto e fruttare poco. Le oscillazioni di mercato lo resero un investimento in perdita e nel 1990 ci fu l’ultima colata. Alcuni pezzi dell’impianto furono venduti alla Cina, altri all’India. Il territorio fu bonificato, ma ancora oggi possiamo osservare lo scheletro di una questione più particolare rispetto alla sola industria.
Per quanto riguarda il Sud, si è sempre posto il problema della ”questione meridionale” soprattutto legata alla mancanza di industrie. La chiusura dell’Italsider potrebbe avvalorare questa tesi, ma in realtà in tutti gli anni di lavoro gli operai non hanno mai smesso di dare il loro contributo per la rinascita dello stabilimento.
Tra fondi mai arrivati, debiti e una cattiva gestione delle finanze, l’Italsider scomparve, eppure molti furono gli operai che cercarono di ribellarsi alla chiusura e alla loro disoccupazione, anche se veniva promesso loro di essere mantenuti in cassa integrazione.
Bibliografia
Ermanno Rea, La dismissione, Milano, Rizzoli, 2002
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