Immaginate per un attimo un quadro, prestate attenzione alla sua meravigliosa tela. Se guardate attentamente vedrete muoversi dei personaggi, tre per l’esattezza e un pò bizzarri.
Un quadro, o meglio una commedia , l’unica commedia del filosofo e scrittore Giordano Bruno. Una tela, la meravigliosa Napoli degli anni 70 del Cinquecento. E vi dicevo, tre assurdi protagonisti:
Bonifacio un poeta petrarchista, Bartolomeo l’alchimista e Manfurio il pedante umanista. Un complicato ritratto disegnato da un altro importante personaggio: il pittore Gioan Bernando (nonchè voce dell’autore).
Bruno riesce attraverso una minuziosa descrizione della città a riportarci tra i vicoli e i quartieri napoletani. Un immediato salto sulla scena, ci aggiriamo tra le mura di piazzetta Nilo.
Quella che ci viene presentata è una Napoli in decadenza, messa ai margini della monarchia spagnola. Una città tramontata dopo lo splendore aragonese dove tutto appare guidato da un indomabile caos. Caotica è la trama, in cui le storie dei tre protagonisti si accavallano e si scontrano. Caotica è la struttura stessa dell’opera(in cinque atti), che rompe con gli schemi della commedia rinascimentale. Complesso è anche il linguaggio, colorito di termini in latino in toscano e ovviamente in napoletano ed arricchito di numerose metafore.
Napoli non è soltanto una tela su cui Gioan Bernardo si appresta a ritrarre queste accidentali vicende, la città diventa il teatro perfetto in cui questo caos viene messo in scena. Un mondo rovesciato in cui i marioli si atteggiano a sbirri.
Muovendosi tra le viscere di una realtà locale, dando voce a personaggi che sono in tutto napoletani, Bruno proietta (attraverso vari espedienti narrativi) questa realtà e le sue ferite storiche verso un buio universale.
La regalissima Napoli diventa così espressione di una crisi dell’umanità intera. Un’umanità divisa nell’eterna scissione tra essere e apparire.
La commedia fu pubblicata a Parigi nel 1582 . Nel Settecento fu definita ” scellerata e infame” , un giudizio legato sicuramente al suo linguaggio osceno e sboccato. Ad un’analisi più attenta dell’opera, quello utilizzato da Bruno ci appare come l’unico linguaggio possibile per rendere la complessità tematica del Candelaio.
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