Vincenzo Gemito, ‘O scultore pazzo

Delle volte sentiva il bisogno di tornare a casa, fare un passo indietro per cercarsi e magari ritrovarsi in un piccolo angolo di strada, in quella miseria che era stata messa in ombra dall’accecante bagliore del successo.
Questa è la storia di Vincenzo Gemito, l’artista di fine Ottocento, scultore, orafo e disegnatore che non conosceva le sue origini.
Affidato alla ruota degli esposti nello stabilimento dell’Annunziata quando aveva solo pochi giorni di vita, per un errore di trascrizione assunse il cognome che oggi conosciamo, come se preannunciasse la sofferenza che lo avrebbe accompagnato per buona parte dell’esistenza.
Di se stesso Vincenzo sapeva di certo una cosa: Napoli era la sua città natale, l’unico luogo che profumava di famiglia. Erano quei paesaggi, quelle persone a essere i veri protagonisti della sua arte, quasi non potesse farne a meno.
Andava costantemente alla ricerca della bellezza, non quella dei lussuosi salotti, bensì quella del popolo, l’unica vera, a parer suo, fatta di mare e di polvere.
Camminava per le strade, solo e pensieroso, lasciava che i suoi occhi neri e vividi s’incantassero davanti alla semplicità della vita quotidiana.

“Io non so centomila lire quante siano né m’importa saperlo. Io non conosco il denaro, ma gli eroi: a me basta una pipa di tabacco e della creta. Il resto è zero”

Queste le parole dell’artista.
Così ritraeva con estremo realismo quelli che considerava “eroi”: un bambino che ride, una zingara spettinata, un anziano filosofo, la donna che amava, un giovane pescatore che stringe al petto il prodotto della sua pesca.
Il suo animo tormentato era alla continua ricerca della propria identità e dell’irraggiungibile perfezione che lo condussero alla pazzia.
’O scultore pazzo lo chiamavano in città, ma c’era anche chi lo definiva Il genio dell’abbandono.
Gemito allora era un pazzo o un genio?
Di sicuro diventó sempre più irascibile e violento, la sua arte rifletteva l’inquietudine crescente che lo dominava: era da sempre stato un autodidatta, non abituato a rispettare le regole, piuttosto incline alla sperimentazione; per questo rifiutava ogni canone di bellezza impostogli dai maestri, andando invece alla ricerca di una forma in grado di esprimere al meglio la complessità del suo animo.
Nei suoi disegni il tratto di matita o carboncino diveniva sempre più netto, come se più calcato fosse il nero più forte e sentita la passione che racchiudeva.
Ma quando la sua follia sfoció in una vera o propria patologia?
Si racconta che durante il suo soggiorno a Parigi, vagasse insonne per la casa con una lanterna accesa: temeva che qualcuno potesse impadronirsi del proprio oro e argento, per questo li controllava di continuo, senza riuscire a trovar pace. Con quei metalli preziosi avrebbe dovuto modellare creature meravigliose, quelle che sognava la notte, come draghi e silfidi, non poteva permettere che gli venissero sottratti. Una notte, però, mentre si aggirava nei dintorni della propria abitazione, la sua lanterna andò a urtare contro quella di un carabiniere di pattuglia che, credendolo un ladro, lo picchiò a tal punto da fargli perdere i sensi. Furono forse queste percosse a traumatizzare l’artista.
La causa scatenante della pazzia può anche essere ricondotta a un altro avvenimento: a Napoli Gemito ricevette l’incarico dal sovrano Umberto I di realizzare una scultura marmorea, ma quel tipo di roccia era un materiale rigido, difficile da modellare e così diverso dalla cera che cedeva facilmente alla pressione delle sue dita. Quando vide il suo bozzetto in gesso riprodotto in marmo non contento del risultato andò su tutte le furie e lo prese a sassate. Qualcuno lo fermò e lo condusse alla casa di cura Fleuret.
Ma Gemito era incontrollabile. Dopo tre giorni fuggì da quel manicomio: annodò insieme delle lenzuola e si lasciò calare dalla finestra. Corse scalzo, con i piedi sull’asfalto bagnato, nell’oscurità della notte, ma lo trovarono. Disperato Gemito si gettò in ginocchio ed implorò le guardie di essere lasciato libero, egli stesso si sarebbe rinchiuso in un’abitazione di via Tasso. Accettate quelle supplichevoli richieste, l’artista fu di parola e visse in solitudine tra quelle mura per ben diciotto anni.
Continuò a disegnare e a scolpire, anche quando il suo corpo non voleva più saperne: la malattia lo stava lentamente paralizzando.
Gabriele D’Annunzio, tra i suoi più noti estimatori, racconta che negli anni in cui lo conobbe, Vincenzo aveva sempre una mano in tasca; di nascosto muoveva tra il pollice e l’indice un piccolo pezzo di cera rossa come volesse ammorbidirla e assottigliarla. Era un gesto costante, quasi come se non potesse liberarsi di quell’istinto creativo che lo aveva accompagnato per tutta la vita.
L’arte era incredibilmente causa e cura della sua malattia, prigione e fuga, morte e vita.

Testo e disegno di Laura d’Avossa

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