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Almeno una volta nella vita, per evitare la folla in via Foria o per addentrarci nel complicato intreccio di vicoli retrostanti, avremo varcato l’arco di Porta San Gennaro. Ed in maniera distratta, più per consuetudine che per reale interesse, abbiamo gettato uno sguardo all’ormai ingrigito affresco che fa da sfondo ad una statua di San Gennaro piena di polvere e di escrementi di piccione.

Foto di Valerio Iovane

A questa visione avremmo dovuto essere presi dall’indignazione per il degrado di un’opera d’arte dal valore inestimabile; ma il nostro occhio era distratto, la nostra mente altrove ed abbiamo continuato a camminare nella solita fretta quotidiana.

Un tesoro dal valore inestimabile

Senza esserci resi conto d’aver attraversato una delle più antiche porte della città, di essere stati a contatto con pietre che hanno visto passare generazioni e generazioni di napoletani, vive o morte.

Possiamo iniziare ad immaginare il passaggio di persone sotto quell’arco sin dal 928 d.C., anno in cui nei documenti pervenutici ne è attestata per la prima volta la presenza. Era un periodo di terrore per tutti gli abitanti del sud Italia: in quegli anni, infatti, l’espansione saracena sembrava inarrestabile. Essendo la porta l’unico accesso alle catacombe di San Gennaro, oltre ad acquisire il nome di “Porta san Gennaro” per questo motivo, sotto di essa per secoli sono transitati cortei funebri provenienti da vico Limoncello, luogo in cui le salme venivano spogliate affinché gli averi dei defunti fossero rivenduti al mercato. 

Oltre alle persone, però, questa pietra ha visto passare anche altre pietre: quelle di tufo provenienti dalle cave della Sanità. E chissà, forse erano proprio quelle la cui assenza è stata riempita dalle ossa che hanno dato vita al cimitero delle Fontanelle.  A causa di ciò il secondo nome con cui era conosciuta la porta era “porta del tufo”.

Busto dietro Porta San Gennaro
Il busto retrostante di San Gaetano

Con la nostra immaginazione dobbiamo però fare un piccolo sforzo nel vederla in altri luoghi; fino al 1537, anno in cui Don Pedro De Toledo la collocò dove possiamo attualmente ammirarla, essa era stata spostata già due volte (non è per niente inusuale che i monumenti subissero spostamenti, basti pensare alla fontana di Piazza Municipio! ).  E dobbiamo anche pensare ai mutamenti che ha subito nell’aspetto: prima di essere posizionata a via Foria, infatti, era affiancata da due torri fortificate che furono demolite per armonizzare la sua struttura con i palazzi già presenti nella strada.

Gli affreschi antichi di Mattia Preti

Ma la parte più interessante di Porta San Gennaro non è tanto la porta stessa quanto, piuttosto, gli elementi che la adornano: l’affresco di Mattia Preti e il busto, retrostante, di san Gaetano.

Affresco conservato a Capodimonte
Uno dei bozzetti conservati al Museo di Capodimonte. Ho evidenziato in blu San Francesco Saverio, in rosso Santa Rosalia ed in verde San Gennaro.

Mattia Preti, che risiedeva a Napoli già dal 1653, fu uno dei pochi artisti della città a non morire durante la peste del 1656. Poiché l’altro grande esponente della pittura napoletana di quel periodo, Luca Giordano (con cui Preti ebbe non pochi contrasti), si era trasferito a Roma per sfuggire all’epidemia, nel novembre di quell’anno vennero commissionati al “Cavalier Calabrese” degli affreschi ex-voto sopra le sette porte della città.

Fra il 1656 ed il 1659 egli realizzò dunque sette opere aventi tutte lo stesso tema: la Vergine con il Bambino in braccio è sempre al centro sulla parte superiore della scena mentre accanto a lei San Gennaro, San Francesco Saverio e Santa Rosalia, tre santi protettori della città, la supplicano affinché liberi i cittadini dal flagello della peste. In basso, vedute di Napoli fanno da sfondo alla sofferenza dei suoi abitanti, rappresentati per la maggior parte come pallidi cadaveri.

Affresco Porta San Gennaro
Il secondo bozzetto conservato al Museo di Capodimonte.

Ma la fine della produzione di queste opere segnò l’inizio di un’aspra polemica. I padri teatini, a quell’epoca, stavano portando avanti una campagna per far in modo che il fondatore del loro ordine, Gaetano Thiene, diventasse patrono della città. La sua assenza nei dipinti eliminava del tutto questa possibilità e, per rimediare, commissionarono a Bartolomeo Mori un busto di pietra del Santo da posizionare sul retro della porta.

L’affresco sopravvissuto a Porta San Gennaro

L’annerito affresco di Porta San Gennaro è l’unico sopravvissuto ai suoi “fratelli”.  Molte delle porte su cui erano stati dipinti sono state distrutte ma già De Dominici nella sua opera “Vite de’ pittori, scultori ed architetti napoletani” testimonia che alla metà del ‘700 l’affresco di Porta Capuana:

“maltrattato dalla pioggia e dai venti e dai terremoti, soprattutto quello del 1688, non ha lasciato di sé vestigio alcuno e sol ne rimane la memoria in un bozzetto del Cavaliere, posseduto da Don Nicola Garofalo, dottor dell’una e dell’altra legge, e virtuosissimo di belle lettere”

Insomma, a causa dell’esposizione permanente degli affreschi alle intemperie, già un secolo dopo la loro esecuzione molti di essi erano andati perduti, ma per avere un’idea di come dovevano essere possiamo ammirare due bozzetti preparatori conservati al Museo di Capodimonte.

Nel 1997 l’Associazione Incontri Napoletani ha promosso uno straordinario restauro che ha fatto riaffiorare l’immagine di porta San Gennaro che sembrava irrimediabilmente perduta per via di un fallito tentativo di restauro fatto alla fine dell’Ottocento.

Ma oggi, vent’anni dopo, per la mancanza di una manutenzione ordinaria, siamo di nuovo al punto di partenza.

Ed in maniera distratta, più per consuetudine che per reale interesse, gettiamo uno sguardo all’ormai ingrigito affresco che fa da sfondo ad una statua di San Gennaro piena di polvere e di escrementi di piccione.

-Federica Russo
Le foto sono di Federico Quagliuolo e di Valerio Iovane mentre le immagini esplicative sono tratte dal libro citato sotto.

Per la scrittura di quest’articolo mi sono avvalsa della monografia su Mattia Preti a cura di Erminia Corace ed edita da “Fratelli Palombi Editori”. Questo saggio considera errata la testimonianza di De Dominici sull’arrivo del pittore a Napoli. Egli, infatti, non sarebbe arrivato a Napoli nel  1659 ma nel 1653 e nei documenti non ci sarebbe traccia della storia per cui gli affreschi ex-voto sarebbero una commutazione della pena di omicidio.

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