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Plissé Papoff: la rinascita di un’arte

Scorrendo veloci fra le minuscole pieghe del cartone le dita producono un rumore ritmato, una melodia che riempie l’aria del laboratorio. Guardare le quattro mani che lavorano simultaneamente è quasi ipnotico e il fruscio che interrompe il processo per un brevissimo istante, quello per tirare lo stampo in modo da avvicinarlo al bordo del tavolo, racchiude il tempo necessario affinché l’osservatore possa rendersi conto di star assistendo a qualcosa di straordinario.

L’arte di lavorare il plissé la famiglia Papoff se la tramanda da più di un secolo: le sorelle Alessandra e Stefania, insieme alla loro amica Renata, sono la quarta generazione a portare avanti un mestiere difficile e quasi perduto. Ma procediamo con ordine.

Un ferro da stiro delle lavanderie con l’incisione “Papoff”

In principio c’era Andrej Popov, diventato Papoff per traslitterazione: un diplomatico della Russia zarista che, venuto a Napoli nella metà dell’800 con una delegazione, si innamorò della città e di una nobildonna francese che si trovava alla corte di Ferdinando II di Borbone, Helene Larsel.

Esiste solo una foto dei due e, sul retro di questa, sono annotati i nomi dei tredici figli che ebbero insieme, con le rispettive date di nascita e morte e i luoghi in cui si erano trasferiti.

Uno di essi, Luigi, ebbe un figlio: Alberto. Egli, agli inizi del XX secolo, si recò a Parigi per imparare l’arte del plissé, forse proprio dalla famiglia Lognon, che si fregia di aver iniziato a fare plissé durante il regno di Napoleone III. Oggi la Maison Lognon lavora per i più grandi marchi della moda francese e le sue creazioni sono note per essere “indéplissables”.

Uno degli stampi più antichi della famiglia..

Non possiamo dire con certezza se furono loro i suoi maestri: fatto sta che Alberto fece ritorno a Napoli carico di stampi, alcuni ancora oggi gelosamente conservati e chiamati, affettuosamente, “le reliquie”. Ben presto, però, il plissé passò di moda ma egli, non perdendosi d’animo, decise di aprire una lavanderia. Suo figlio Luigi ampliò l’attività familiare fino a farla diventare la più grande catena di lavanderie napoletana: morto negli anni settanta lasciò erede di quella che oramai era diventata un’industria suo figlio Alberto.

… e il risultato del suo impiego!

Il secondo Alberto di questa storia dovette affrontare la crisi economica e politica di quel periodo.  Sua moglie Valeria Farina decise di andare a lavorare nelle lavanderie del marito diventate, nel frattempo, anche tintorie e, ritrovando e restaurando gli stampi del plissé del nonno Papoff, si fece insegnare da alcuni anziani quell’arte venuta tempo prima da Parigi.

Purtroppo la poliedrica industria Papoff S.p.a. chiuse i battenti nei primi anni ‘90.

Ma Valeria, pur non essendo imparentata di sangue con il primo Alberto, aveva la sua stessa grinta: nel 1983 aprì al Vomero insieme ad una cognata e un’amica, a cui in seguito subentrò la figlia Alessandra, all’epoca neo diplomata ed iscritta ad una scuola di moda, Le Plissé”, un laboratorio in cui realizzavano e vendevano plissé, capi di sartoria e tessuti dipinti a mano. Ma quest’iniziativa venne schiacciata dalla grande recessione mondiale, chiudendo nel 2008.

Una foto delle lavanderie Papoff dall’Archivio fotografico Riccardo Carbone

Per anni gli stampi sono rimasti chiusi in uno scantinato, tirati fuori solo per le richieste di parenti ed amici. Ma la nuova generazione aveva voglia di rialzarsi e di riportare agli albori un’arte messa per troppo tempo da parte: nel 2014 Alessandra ha partecipato al progetto del comune di Napoli “Viviaio donna”, volto ad aiutare donne con un talento nel campo dell’arte a trasformare la loro passione in un’azienda.  Il suo obiettivo, però, non era economico. Iniziava, quindi, a pensare all’apertura di un’associazione culturale, ma erano anni pieni di sconvolgimenti nella sua vita privata, belli e brutti.

Il 23 marzo di quest’anno, dopo una schiera di amici che, con l’acquisto di sciarpe plissettate, hanno voluto aiutarle a ripartire Alessandra, sua sorella Stefania e una loro amica, Renata, sono finalmente riuscite a fondare la loro associazione.  Abbiamo avuto l’occasione di incontrarle e di scoprire come viene realizzata questa tecnica quasi perduta.

Per prima cosa bisogna tagliare il tessuto (lana, seta e poliestere sono i più indicati) ed aprire con delicatezza gli stampi di cartone interamente realizzati a mano, alcuni più di un secolo fa. Lo stampo ha due cartoni “gemelli” e il tessuto è messo al loro interno; si procede poi alla piegatura e all’inserimento dello stampo, ormai chiuso, fra due pezzi di legno per tenerlo fermo.
In seguito viene introdotto in un forno a vapore e, tirato fuori, è lasciato asciugare.
Una volta riaperto, la stoffa di prima non esiste più.

Una sciarpa plissettata

Al suo posto c’è quella che, senza ombra di dubbio, possiamo definire con una sola espressione: un’opera d’arte.

I progetti della neonata associazione sono tanti: organizzare visite ai luoghi storici della moda napoletana, fare corsi nelle scuole e nelle accademie.

Ma l’obiettivo resta uno solo: tramandare e preservare una tecnica di lavoro artigianale quasi completamente rimpiazzata dalle macchine e formare giovani sarte affinché possano utilizzare, nei loro modelli, tessuti plissettati.

-Federica Russo
Tutte le foto sono di Federica Russo e Carlotta Pane tranne quelle che testimoniano lo splendore della lavanderia Papoff di proprietà dell’Archivio fotografico Riccardo Carbone. 

 

 

 

 

              Sfogliate la galleria qui sotto per scoprirne di più!

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