I coltelli per la Camorra erano un oggetto quasi sacro. Facciamo l’esempio della sfarziglia: era una sorta di spadino richiudibile che, una volta aperto, diventava lo strumento capace di dimostrare il valore di un uomo nei duelli.
Ai tempi dell’Onorata Società, quando la camorra napoletana cercava di fingersi una “massoneria del popolo”, con rituali, regole e procedure copiate dalla nobiltà e dalle sette segrete, anche i coltelli avevano una loro complicatissima ritualità che girava attorno alla “zumpata” e ai duelli, che erano una parte fondamentale della società più ignorante e violenta, che cresceva ammirando l’opera dei pupi e si infiammava davanti ai duelli di Orlando e poi negli spettacoli popolari tifava camorristi popolari come Ciccio Cappuccio.
Quando nacque il mito della guapparia ad inizio ‘900, l’Onorata Società lasciò spazio ai “guappi” di quartiere, che non erano camorristi, i coltelli erano uno strumento perfetto per dimostrare la propria “virilità” e il proprio potere sul quartiere, spesso lanciandosi in sfide all’ultimo sangue contro i propri avversari, oppure ostentandolo con spavalderia davanti ai poveracci che promette di “sorvegliare” al posto di uno Stato che ha spesso chiuso gli occhi sulle miserie del popolo napoletano.
La Sfarziglia, il coltello della Camorra
La Bella Società avrebbe quasi dovuto brevettare il suo coltello per eccellenza. La “sfarziglia“, che non viene da “sfarzo“, ma dal verbo “sferzare” o “sferrare“, in entrambi i casi termini appropriati per una frusta. L’equivalente in italiano è “squarcina“: un termine ancora più appropriato. Fu introdotto intorno al XVII secolo ed ha una storia oscura, mentre sappiamo con più certezza la data di dismissione: dopo la II Guerra Mondiale, quando le bombe portarono via non solo le vite dei napoletani e i monumenti della città, ma anche antiche regole della violenza, sostituite dalle armi da fuoco.
L’uso in combattimento della sfarziglia è infatti particolarissimo e si ferisce il nemico “lanciando” la mano con colpi brevi e rapidi, come se si stesse maneggiando una frusta. Richiede molta esperienza: si tratta di una lama molto lunga, quasi quanto uno spadino, e dal peso notevole.
L’intero combattimento con la sfarziglia era una danza, la “zumpata“, in cui gli sfidanti saltavano, ondeggiavano, quasi ballavano mentre cercavano di colpirsi al petto per provare la propria ragione, come negli antichi rituali tedeschi.
Essendo spesso armi artigianali (spesso raffinatissime), i meccanismi di apertura e chiusura non erano sempre perfetti e bisognava far attenzione a gesti dell’avversario che avrebbero potuto far richiudere la lama: soprattutto nei duelli, dove c’era un perverso senso dell’etichetta e dell’onore, era considerata una vigliaccata, ma rimaneva un gesto ammissibile.
Dettagli della Sfarziglia
Guai a chiamarlo pugnale: si tratta di una quasi-spada affilata su entrambi i lati che, una volta chiusa, si può nascondere in una doppia tasca del cappotto o che passa inosservata fino all’utilizzo.
Spesso era riccamente decorata con incisioni ad acido che rappresentavano spesso l’asso di spade, figlio della ricchissima simbologia delle carte napoletane, oppure frasi
Una volta finito il XIX secolo, fu soprannominata anche “‘o curtiello ‘e guapparia“, “Il coltello dei prepotenti”: proprio a causa della sua “nobile” storia camorrista, diventò l’oggetto prediletto dei “guappi” e di tutti quei prepotenti che si aggiravano a vario titolo nei quartieri di Napoli e che volevano dimostrare di essere “uomini di conseguenza“.
Racconta Carlo d’Addosio che i duelli all’arma bianca erano all’ordine del giorno a Napoli, spesso per i motivi più banali.
Il Zompafuosso, il pugnale a serramanico
Una storia diversa è quella del zompafuosso: era soprannominato anche “coltello delle donne”, perché piccolissimo e invisibile. Spesso le matrone lo utilizzavano come fermaglio per capelli, pronte ad usarlo nel momento di pericolo.
Fu un coltello che si diffuse in tutto il Sud Italia, arrivando fino a Roma: era lungo circa 20cm una volta esteso, mentre chiuso era piccolissimo. Era l’arma di autodifesa per eccellenza e spesso si regalava in dote al matrimonio come segno di buona fortuna.
Il soprannome “zompafuosso” deriva sempre dal rituale della zumpata, fatta in questo caso con coltelli che garantivano uno scontro molto ravvicinato.
Era anche il coltello usato per gli sfregi, quella punizione che spesso subivano le donne irrispettose o gli uomini non rispettosi dei principi d’onore o di sottomissione al guappo.
L’ostentazione delle armi
I camorristi, almeno ai tempi l’Onorata Società, ostentavano la propria sfarziglia quasi come un segno d’appartenenza a un ordine cavalleresco.
Quando finì la camorra tradizionale intorno al 1906, la tranquillità nel quartiere fu assicurata dai guappi che imitavano i riti e le parole della camorra antica per darsi un tono. Con loro le armi diventarono le più variegate e furono spesso adottati anche i pugnali, soprannominati genericamente “fierro“. Un principio rimase però uguale per tutti: i duelli e gli
Poi anche la camorra trovò le sue evoluzioni sempre più brutali e infami. E, con tempi nuovi, anche il duello perse tutte quelle sue regole “cavalleresche” che dava nomi alle armi, regole di comportamento e antichissimi concetti d’onore ai quali appigliarsi.
Nell’evoluzione della camorra degli ultimi anni è rimasto un solo principio immutato: la violenza, la stessa che da secoli entra nelle carni delle vittime ferite o uccise per inutili ragioni.
-Federico Quagliuolo
Riferimenti:
Abele De Blasio, Usi e costumi dei Camorristi, Napoli, 1871
Carlo D’Addosio, Il duello dei camorristi, Imagaenaria, Ischia, 2018