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Un “Garibaldi al contrario”: José Borjes fu un generale catalano che partì nel settembre del 1861 con la missione di annullare l’Unità d’Italia.

Aveva in mente uno dei più credibili tentativi di riconquista militare degli antichi territori del Regno delle Due Sicilie. Eppure le cose non andarono però come previsto, paradossalmente, anche per colpa dei suoi stessi alleati che non riuscì a mettere d’accordo.

E fu così che, solo con 20 uomini, si trovò a far guerra all’Italia intera.

José Borjes conquista delle Due Sicilie
José Borjes, il protagonista della spedizione

Il condottiero dei sovrani senza regno

José Borjes era un condottiero carismatico, amante delle cause perse e dei sovrani senza un regno. Questa cosa fa un po’ sorridere se pensiamo che il suo idolo sin da bambino, Giulio Cesare, gli lasciava nella mente sogni, immagini e desideri di eserciti invincibili e battaglie epiche che a distanza di 2000 anni ancora studiamo.

Il carattere di Borjes è ancora più anomalo se guardiamo lo Stato in cui è nato: la Catalogna è storicamente una delle regioni più antiborboniche della Spagna. Eppure il generale era l’ultimo rampollo di una famiglia fervente borbonica, con il padre che fu servo fedelissimo di Carlo V, il fondatore del movimento carlista spagnolo.
Nel 1833, infatti, il fratello del defunto re Ferdinando VII non accettò che la corona di Madrid potesse finire in mano a una donna, Isabella, e fu protagonista della prima delle tante guerre civili che sconvolsero la Spagna fino al 1936.
In quei tempi Borjes era appena ventenne e non era altro che un giovane soldato di Vernet, una minuscola frazione del paese di Artesa de Segre in Catalogna.

Aderì con immenso trasporto emotivo alla causa carlista e nel 1836 assistette alla fucilazione di suo padre, disposto ad arrivare alle estreme conseguenze pur di difendere il suo re. Poi nel 1840 perse in battaglia anche suo fratello Miguel.
Fu così che scappò in Francia, dove cambiò identità e lavorò come libraio per diverso tempo e proprio in quel periodo si dedicò agli studi.
Ma il conflitto era nel suo sangue. E partecipò anche alle altre guerre civili spagnole, distinguendosi per il coraggio e l’abilità nel combattimento. Alla fine arrivò l’occasione della vita: non partecipare ad una guerra civile, ma restaurare un regno borbonico caduto senza alleati.

Incontrò infatti a Marsiglia il generale Tommaso Clary, un borbonico passato alla Storia per essere stato fra i maggiori colpevoli della conquista garibaldina della Sicilia che, nei tempi dopo l’Unità, era diventato uno degli agenti segreti di Francesco II.
Il militare promise al generale catalano “un esercito pronto a combattere, armamenti modernissimi e finanziamenti illimitati“. In cambio José Borjes avrebbe dovuto rivestire il ruolo di “Garibaldi delle Due Sicilie”, rifacendo lo stesso percorso che fece il Cardinale Ruffo nel 1799.

Accettò immediatamente.

Busto José Borjes
Il busto dedicato a José Borjes a Tagliacozzo, in occasione dei 150 anni dalla sua morte. Foto di Marsicalive

Una vita da brigante: la riconquista del Regno delle Due Sicilie

Non si è mai capito se Borjes fosse davvero convinto di poter riuscire nell’impresa oppure se stesse solo cercando un progetto impossibile in cui morire da eroe, inseguendo ideali di un’epoca ormai passata. Quel che è certo è che ingaggiò una battaglia donchisciottesca contro l’Italia intera degna del Proclama di Rimini fatto da Gioacchino Murat cinquant’anni prima.

José Borjes radunò 22 uomini con un discorso infuocato. Era l’ora della “liberazione del Sud Italia, il momento di scacciare l’invasore piemontese“: il suo contatto napoletano gli aveva garantito un esercito di almeno 1000 uomini. Almeno a parole.

Le classi agiate, come le classi istruite, sono dunque liberali e italiane nelle province. I miserabili e gli ignoranti parteggiano per Francesco II

Diario personale di José Borjes

Una volta sbarcato non trovò nessuno ad accoglierlo. E cominciò a capire che qualcosa stava andando molto male. Nel suo diario, che poi fu pubblicato dal giornalista Marc Monnier, raccontò di aver passato un periodo di profonda depressione, dopo aver capito il guaio in cui si era cacciato. D’altronde, in 20 uomini non si può nemmeno organizzare una partita di calcio, figuriamoci un colpo di Stato.

Si unì allora ad un gruppo di briganti comandati da un ex ufficiale borbonico, Ferdinando Mittica, ma i due si separarono subito perché il militare non aveva intenzione di perdere il comando dei suoi uomini. Il generale catalano, invece, aveva intenzione di riunire tutte le bande di briganti per attaccare il capoluogo della regione.

Borjes tornò a viaggiare così per la Calabria con i suoi 22 uomini, affamati e costretti a vivere di espedienti, rapinando carretti e piccole fattorie per non morir di fame. Finché non furono catturati da Carmine Crocco, il capo dei briganti della Lucania che, quando scoprì la loro provenienza, accettò di collaborare.

Brigante Carmine Crocco
Il brigante Carmine Crocco

Potenza capitale

L’alleanza con il brigante Crocco fu tutt’altro che rose e fiori. Le due personalità facevano scintille e faticavano a coesistere. E questa divisione fu anche la loro condanna: Crocco infatti immaginava la resistenza come una guerriglia fra i boschi della Lucania, mentre Borjes, da militare e servitore dello Stato, aveva in mente l’idea di assaltare il capoluogo della Basilicata prendendolo di sorpresa, per poi stabilire lì il nuovo governo provvisorio del Regno delle Due Sicilie: Potenza sarebbe stata la capitale pro-tempore e l’avamposto perfetto per attaccare le regioni vicine.
Gli uomini a disposizione erano però quelli di Crocco e le regole del gioco erano dettate dal brigante lucano.

I due capi assieme erano inarrestabili: uno metteva in campo la sua intelligenza tattica, l’altro la sua abilità di guerriglia. La loro offensiva sul fiume Basento sbaragliò interi reparti dei bersaglieri e, assieme, conquistarono posizioni strategiche in tutta la provincia potentina. Ma l’offensiva definitiva si faceva attendere. E intanto il capoluogo veniva rinforzato da nuovi militari.

Alla fine Crocco ritenne che l’attacco di Potenza, ormai fortificata, sarebbe stato un suicidio: decise di abbandonare l’impresa e sparì fra i boschi con i suoi uomini. Borjes rimase di nuovo solo: erano 19 fedeli contro uno Stato intero, persi fra gli Appennini.

Briganti Lucani arrestati
Briganti lucani arrestati dai Carabinieri

José Borjes, la fine di un topo in trappola

Era l’8 dicembre 1861, il giorno dell’Immacolata, la festa più cara per i Borbone che il generale catalano serviva già nel grembo di sua madre. In quell’anno a Napoli il Vesuvio stava cominciando una disastrosa eruzione proprio mentre, 600 chilometri più in là, sugli Appennini abruzzesi, c’era un gruppo di fedelissimi borbonici che arrancava nella neve in cerca di un riparo per la notte. Gli uomini del Generale Borjes erano passati da 1200 soldati a soli 19 fedelissimi infreddoliti, male armati e riparati nella “Cascina Mastroddi”, che era un piccolo edificio agricolo gettato nella lontana Valle della Luppa, oggi famosa per la sua grotta. La situazione era pressoché disperata: i militari erano inseguiti da un plotone di 100 bersaglieri guidati dal maggiore piemontese Enrico Franchini. Speravano di passare la notte al riparo per poi fuggire nello Stato Pontificio, ma un paesano li aveva visti e aveva parlato. I bersaglieri erano alle loro calcagna.

La Legge Pica per la repressione del brigantaggio sarebbe arrivata nel 1863 e c’era un grosso vuoto normativo nello Stato Italiano: i movimenti legittimisti nel Sud Italia in quei tempi erano trattati dai militari italiani come vere e proprie azioni di guerra in territorio straniero anche se, legalmente, i territori meridionali già appartenevano all’Italia.

La battaglia fu brevissima e durò il tempo di pochi proiettili e un paio di feriti. I 19 irriducibili di José Borjes furono incatenati, spogliati di ogni oggetto personale e messi in fila davanti alla cascina, che fu bruciata davanti ai loro occhi.

Il maggiore Franchini ottenne la spada del generale catalano come umiliazione simbolica per la resa, e condusse i prigionieri a Tagliacozzo. Li fece mettere in fila per l’esecuzione capitale: Borjes chiese di essere fucilato in modo onorevole, come Gioacchino Murat. E invece fu messo di spalle contro il muro.
Si appellò allora all’ultima cosa alla quale era fedele: la religione. E anche lì il suo ultimo pensiero fu interrotto: mentre stava urlando una preghiera in catalano, fu raggiunto da una scarica di pallottole che gli strozzarono l’amen in gola. Un trattamento tanto feroce da essere degno del buon Maramaldo.

I corpi furono bruciati e gettati in una fossa comune. Tutti erano stati uccisi ed umiliati in modo esemplare, un’ottima lezione anche per i briganti.

Lapide José Borjes cascina
La lapide che ricorda José Borjes nel luogo in cui fu catturato. Fotografia di Marica Massaro

Un’ondata di sdegno per la morte

La morte umiliante del generale Borjes e dei suoi militari suscitò un’immensa ondata di sdegno da ogni parte d’Europa e da ogni schieramento politico: Francesco II di Borbone scrisse una lettera di fuoco contro Vittorio Emanuele II, ma anche Victor Hugo (che proprio borbonico non era) si scagliò contro il governo italiano.

L’ondata di polemiche spinse il generale La Marmora ad ordinare la riesumazione del cadavere di José Borjes ed il suo trasporto a Roma, per garantirgli un funerale degno del suo grado, di fronte al sovrano che aveva giurato di servire.

Tagliacozzo, insomma, fu cruciale per i destini del Sud Italia.
Proprio lì fu sconfitto sconfitto Corradino di Svevia da Carlo d’Angiò: dopo quell’evento Napoli diventò capitale di un nuovo regno.
600 anni dopo, nello stesso luogo, accadde proprio il fatto inverso: in una cascina sperduta nei boschi finì l’ultimo tentativo di restaurare quel regno creato dagli angioini.

-Federico Quagliuolo

Riferimenti:
Bandolerisme al segle XIX i atres esdeveniments relacionats a Artesa de Segre
Rassegna storica del Risorgimento, anno 1955
Maffei, Monnier, Brigand Life in Italy: a history of Bourbonist reaction, Hurst and Blackett, Londra, 1865
Silvio De Majo, Tommaso Clary
Juan Mané y Flaquer, Joaquim Mola i Martinez, Historia del bandolerismo y de la Camorra en la Italia meridional, Libreria de Salvador Manero, Barcellona, 1882
Tommaso Pedio, José Borjes, la mia vita tra i briganti, Lacaita, Manduria, 1964

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  1. Nello Avatar
    Nello

    Complimenti per la storia

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