o pere e o musso
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La cucina partenopea è la patria indiscussa dello “street food“, da consumare in piedi e in fretta sui cigli delle strade. ‘O pere e ‘o musso è senza dubbio uno dei piatti più celebri di questo ambito, oltre che quello più ricco di storia. Il suo è un sapore intenso, per stomaci forti ed abituati. Ma cosa si cela dietro questa pietanza?!

o pere e 'o musso
Foto di di Gasparino.

‘O pere e ‘o musso…ma di cosa?!

Quello che viene convenzionalmente chiamato come ‘o pere e ‘o musso (il piede e il muso, per i non autoctoni!) indicherebbe parti del corpo del maiale e del vitello, rispettivamente. In realtà questo piatto include diverse tipologie di “scarti” di lavorazione animale, il cosiddetto “quinto quarto” (trippa, cuore, polmoni, regato, milza, intestino etc..). La trippa, ad esempio, altro non è che il ventre di grossi animali ed è costituita dalle diverse parti dello stomaco del bovino. A Napoli viene chiamato ‘o cientopelli perché pare costituita da piccoli sottili nastrini che ricordano i galloni dei marescialli francesi.

Una parte che indica un tutto dunque, una sineddoche culinaria che racchiude un mondo a sè stante. Ma ora è giunto il momento di fare un tuffo nella storia, come spesso accade, fino all’epoca dei Borbone.

Storia del piatto, in breve!

‘O pere e ‘o musso sono gli scarti animali, questo ormai è assodato. Ma non tutti sanno che la sua storia parte dai Borbone e ha a che fare anche con il termine “zandraglia“, utilizzato oggi principalmente in modo dispregiativo. Le frattaglie di animale, infatti, erano ritenuto scarti dai nobili ma non dai poveri. All’urlo di “Et voilà, les entrailles!” (ovvero, le viscere), venivano gettate dai balconi delle cucine aristocratiche facendo accorrere le povere donne napoletane vestite di stracci che, tra urla e schiamazzi, cercavano di accaparrarsi il cibo per sfamare le proprie famiglie.

La deformazione del termine “entrailles” in “zandraglia” finì così col tempo per connotare con accezione negativa una donna chiassosa, sguaiata e molto volgare. E questa declinazione persiste ancora ai giorni nostri.

Le interiora vengono citate anche ne “Lo cunto de li cunti” di Giambattista Basile che nella fiaba Lo mercante racconta che Cienzo, allontanandosi da Napoli, inizia a elencare tutte le pietanze che di certo gli mancheranno. E tra queste anche “caionze e cientofigliole” (frattaglie e trippa centopelli). Accenni se ne trovano anche nel racconto “Le sette cotenelle” e in diverse altre testimonianze storiche. Insomma, ‘o pere e ‘o musso può vantare una grande tradizione giunta fino a noi!

o pere e 'o musso
Photo by jimmywee, CC BY 2.0

‘O pere e ‘o musso ai giorni nostri

In alcuni angoli di Napoli e non solo è ancora oggi possibile scorgere venditori ambulanti con ‘o pere e ‘o musso, specialmente in occasione di festività cittadine. Sono chiamati i ventraiuoli e sono i baluardi di una tradizione dura a morire. Spesso e volentieri girano in Apecar, i più tradizionalisti condiscono i piatti con limone e sale contenuto in un corno di bue. In alcuni casi la composizione del piatto è completata con olive e lupini, ma gli integralisti preferiscono senza.

Insomma, ‘o pere e ‘o musso unisce generazioni di amanti dello street food partenopeo. E se non hai ancora assaggiato questa prelibatezza, non ti resta che addentrarti per le stradine di Napoli (e non solo!) alla ricerca di ciò che un tempo era scartato, ma che oggi è desiderato!

Foto di copertina di Gasparino.

Fonti

  • Y. CARBONARO, Il cibo racconta Napoli. L’alimentazione dei napoletani attraverso i secoli fino ad oggi, Kairos Edizioni, 2017.
  • A. COLELLA, Mille paraustielli di cucina napoletana. Aneddoti, leggende, storie, curiosità, fattarelli, scemità ed etimologie di gastronomia napoletana, Cultura Nova, 2018.

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