Doveva essere il modello di punta della flotta della Marina Militare Italiana. Prodotto in totale segreto nei cantieri del Silurificio di Baia, nato dai progetti di uno dei geni dell’ingegneria navale militare: il sottomarino SA3 “Kammamuri” che, se lo leggiamo con l’accento napoletano, ci fa scoprire la sua vera anima partenopea.
“Qua dobbiamo morire” era infatti il suo soprannome tradotto in Italiano. Tutto il resto è avvolto nel mistero: se infatti i primi due prototipi del sommergibile sono noti, del terzo abbiamo solo una foto e pochissime informazioni.
Corsa agli armamenti
Era il 1942 quando il governo italiano, mentre la guerra stava dilaniando l’Europa intera, destinò ingenti fondi ad un progetto supersegreto da realizzare nei cantieri di Baia. Ancora oggi risulta secretato nei documenti d’archivio del Ministero della Difesa e tutte le informazioni sono reperibili solamente, in modo paradossale, dall’archivio della Difesa degli Stati Uniti.
Si trattava di un “sottomarino tascabile”, un modo carino per chiamare dei sommergibili che, date le dimensioni minuscole, sono capaci di ospitare solamente 2-3 marinai, viaggiano con una rapidità estrema e sono letali nelle operazioni di assalto contro navi nemiche. Erano una tipologia di natante già presente nelle flotte più avanzate d’Europa e l’Italia voleva dotarsi di un modello tanto all’avanguardia da poter dire la sua nei mari del Mediterraneo.
In realtà il progetto risaliva al 1934: Pericle Ferretti, uno dei massimi progettisti navali d’Europa che insegnava ingegneria all’Università di Napoli, chiese infatti al governo finanziamenti per poter realizzare studi e progetti di un “Sommergibile d’assalto”, ovvero un piccolo sottomarino, agile e veloce, capace di navigare sopra e sotto l’acqua con lo stesso motore. L’idea piacque, ma nel 1936 si decise di rinviare i lavori. Quattro anni dopo, con una guerra mondiale alle porte e con Mussolini che non poteva più procrastinare l’entrata nel conflitto dell’Italia, si capì che bisognava riprendere il discorso degli armamenti marini il prima possibile perché l’Italia era totalmente impreparata.
Sandokan e Yanez: i primi due prototipi
Lo Stato Maggiore diede l’incarico a Eugenio Minisini, l’ammiraglio che dirigeva il Silurificio di Baia, di riprendere assieme all’ingegner Ferretti lo studio e la realizzazione del SA. Doveva essere un progetto supersegreto che, si sperava, potesse essere varato già nel giro di 2 anni, magari addirittura a guerra finita, data la velocità della Germania nel conquistare l’Europa intera.
I primi due modelli sperimentali furono testati dalle parti dell’Isolotto di San Martino e ancor prima in un luogo segreto a Roma. Le maestranze di Baia li chiamarono usando i nomi dei protagonisti dei romanzi di Salgari: SA1 Sandokan e SA2 Yanez. La ragione va trovata nel fatto che, proprio nel periodo del varo, nei cinema stava spopolando il film dedicato alle avventure della Tigre della Malesia.
I primi due sottomarini, però, erano soggetti a continui guasti. Le dimensioni minuscole, la necessità di contenere il peso fino a massimo 13 tonnellate e la fretta che mettevano i vertici di Roma non remavano nel verso giusto: mentre la X Flottiglia MAS, con i suoi “maiali“, si guadagnò la medaglia d’oro per le sue azioni di guerra ardite ed eroiche, a Roma si avvertiva chiaramente la necessità di dover dotare l’esercito di strumenti ben più efficaci e moderni per poter riprendere una guerra che stava ormai per essere persa dalle forze dell’Asse.
Fu così che a Baia si progettò il terzo e ultimo sottomarino.
Kammamuri: un mezzo fantascientifico
Il genio della coppia Ferretti-Minisini ribaltò completamente le carte in tavola: per il SA3 fu rivoluzionato il sistema di propulsione, fu progettato appositamente un motore diesel a 2 tempi unico. Fu usata anche l’elica traente, e non propulsiva: per intenderci, l’elica del motore era posta nel senso opposto, come quella di un aereo. La scelta fu davvero impensabile per le logiche ingegneristiche dell’epoca.
Anche il carburante del sottomarino era particolarissimo: il professor Ferretti studiò personalmente una formula chimica con ossigeno ed etanolo capace di poter ottimizzare la potenza del motore, comportarsi correttamente in un ambiente con altissima pressione come quello sottomarino e soprattutto di non lasciare scie o fumi che potrebbero far rilevare il mezzo. La velocità di questo sottomarino tascabile era di circa 20 nodi, notevolissima per il 1943, e poteva portare due siluri di ultima generazione. Secondo i progetti, il Kammamuri stesso doveva essere lanciato come un siluro gigantesco da un cacciatorpediniere: di lì, rapidamente, doveva correre sott’acqua e aggredire le navi nemiche.
Il sottomarino aveva anche altre caratteristiche speciali, sulle quali ci sono molti dubbi: secondo alcuni rapporti, infatti, aveva un sistema interno di produzione dell’ossigeno tale da non dover emergere mai.
Il nome? Lo scelsero gli specialisti del cantiere di Baia: Kammamuri. Rifletteva bene lo stato d’animo dei lavoratori, misto all’immancabile ironia napoletana.
La potenza bellica del SA3, però, non fu mai messa al servizio dell’Italia. Arrivò infatti l’Armistizio dell’8 settembre 1943 e la ritirata dei tedeschi.
Scompare il Kammamuri
Gli Americani, appena 4 giorni dopo l’occupazione di Napoli, corsero ad occupare ciò che rimaneva in piedi del Silurificio di Baia. I tedeschi in ritirata l’avevano infatti minato e bombardato, senza sapere che all’interno c’erano prototipi delle armi segrete della Marina Militare. O forse lo sapevano e, proprio per questa ragione, qui si apre il mistero.
L’operazione di recupero fu condotta da uno dei pesi massimi dell’esercito a stelle e strisce: il colonnello Donovan, fondatore dell’OSS (che in futuro diventerà la CIA). Questo fa capire bene l’importanza che gli americani davano a questi progetti sperimentali. Poi lo stesso esperto militare si assicurò la collaborazione dell’ammiraglio Minisini: lo fece scortare in una villa a Capri assieme alla famiglia, garantendogli protezione. Poi lo spedì negli Stati Uniti già nell’ottobre 1943 assieme a Sandokan e Yanez. Del Kammamuri, invece, non è fatta nota negli archivi americani e i ricercatori che hanno studiato la vicenda negli archivi, dal dottor Enrico Cernuschi all’architetto Franco Harrauer, non sono riusciti a trovare una soluzione.
Si è arrivati ad ipotizzare addirittura che il terzo sottomarino non sia mai esistito, ma ci sono delle foto che ritraggono nello stabilimento di baia un sommergibile dall’aspetto futuristico e insolito che, senza dubbio, si tratta del SA3 Kammamuri. I primi due prototipi furono invece recuperati e portati negli Stati Uniti e sono provvisti di un’ampia documentazione fotografica che, per ragioni di copyright, non può essere allegata all’articolo.
Il resto è nella leggenda delle spy-stories militari: siamo certi che lo spionaggio giapponese stesse seguendo segretamente i progetti del cantiere di Baia, così come i tedeschi quasi sicuramente ne erano a conoscenza.
Forse allora furono loro a portar via i progetti durante la distruzione del Silurificio? Oppure sono andati perduti sotto le mine naziste?
C’è invece chi pensa che siano stati proprio gli americani a far sparire il sottomarino e i suoi progetti, per riutilizzarli segretamente: il problema è che non è nemmeno menzionato negli inventari dei servizi segreti. Oppure qualche ufficiale italiano, prima di consegnare tutto agli americani, ha distrutto tutte le carte.
L’ultima ipotesi, affascinante non meno delle altre, è che il sommergibile, assieme ai suoi progetti originali, sia stato affondato dalle parti dell’Isola Li Galli a Positano, mentre veniva spostato nell’ottobre del 1943 in un luogo nascosto. Era infatti una tecnologia troppo avanzata per poterla perdere o regalarla ai nuovi alleati, pronti a far la parte del leone.
Quel che è certo è che, ovunque si trovi, questa storia è senz’altro degna di un film.
-Federico Quagliuolo
Riferimenti:
Layout 3 (difesa.it)
mas nell’Enciclopedia Treccani
Il Regio sottomarino Sandokan (altomareblu.com)
Top Secret: sottomarini a Napoli, sommergibile SA3 Kammamuri (altomareblu.com)
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