La battaglia di Benevento fu lo scontro campale che vide contrapporsi Manfredi di Svevia, figlio di Federico II e re di Sicilia, con il pretendente al trono Carlo d’Angiò, fratello del re di Francia Luigi IX, giunto per volontà pontificia nel regno e intenzionato a renderlo suo scacciando l’ultimo figlio in vita dello stupor mundi, considerato eretico e illegittimo.
La battaglia di Benevento costituisce, dal punto di vista meramente evenemenziale, uno degli scontri più importanti della storia europea e mediterranea. La storia difficilmente trova nelle battaglie campali momenti cardine del suo svolgimento, esse per lo più rappresentano il punto di snodo di tensioni e problematiche sviluppatesi sul lungo o medio periodo. In tal senso la battaglia di Benevento non fa eccezione, la sconfitta di Manfredi fu determinata senza dubbio anche da suoi errori politici e strategici, tanto nella difesa del regno e delle sfere d’influenza nel settentrione , quanto nella mancata creazione, all’interno del regno, di un fronte politico e sociale a lui favorevole.
Tuttavia gli esiti della battaglia di Benevento non possono in alcun modo essere ridimensionati in maniera drastica: lo sfaldamento del fronte svevo nonché la morte del re sul campo furono eventi di ampia risonanza che cementificarono sin da subito il potere angioino sul meridione, che di certo non si radicò facilmente, ma lo avrebbe fatto in maniera molto più lenta con un re sopravvissuto e in fuga e un fronte interno a lui ostinatamente fedele.
Prima della battaglia di Benevento: tra virtù e fortuna dei due contendenti
Sarebbe impossibile trattare in maniera definitiva ed esaustiva il retroterra della battaglia di Benevento in questa sede (a tal riguardo si indicheranno vari testi in bibliografia) tuttavia, ai fini di una più completa comprensione anche in un contesto divulgativo, verrà qui tracciato un quadro generale della situazione politica, sociale e militare in cui versavano i due pretendenti al trono del regno di Sicilia prima della battaglia.
Per quanto concerne la partita giocata nel nord Italia gli schieramenti guelfi e ghibellini (termini problematici da utilizzare in maniera così definita, tuttavia utili al nostro discorso) rivestirono un ruolo importante, tuttavia non definitivo. Tra voltafaccia e inoperosità difficilmente interpretabili il fronte ghibellino fu facilmente sfondato dalla marcia angioina, la cui velocità stupì persino i contemporanei.
Elemento di grande importanza fu probabilmente il morale dei guerrieri: le truppe italiane erano avvezze ad un tipo di guerra fatta di interessi conflittuali, cambi di schieramento e fini giochi politici mentre le truppe francesi, avendo un obbiettivo ben più definito e importante, riuscirono a imporsi sul campo in maniera ben più preponderante. Tuttavia la stupefacente marcia angioina non fu un unicum: anche la discesa di Corradino, pochi anni dopo, seppur dall’esito ben più infelice, incontrò nel settentrione ben poca resistenza.
Ritornando al morale delle truppe angioine di non minore importanza fu senza ombra di dubbio la propaganda papale: essa facilitò una mobilitazione militare che, seppur comunque molto ardua, sarebbe stata senza ombra di dubbio molto più difficoltosa senza l’opera ideologica della cancelleria pontificia, forgiatasi sotto le martellanti contese di epoca federiciana. Quella nel regno di Sicilia fu definita una vera a propria crociata contro il “sultano Manfredi”, colpevole di ospitare all’interno del suo regno i musulmani di Lucera e professare dottrine ereticali. L’ardore religioso che sempre caratterizzò la cavalleria francese fu quindi strumentalmente utilizzato anche contro re Manfredi.
Furono forse gli eventi interni al Regno quelli di maggior risonanza: se da un lato Manfredi mantenne nuclei di fedeltà di gran rilievo (primo tra tutti la colonia saracena di Lucera) allo stesso tempo era riuscito a straniarsi una gran parte della compagine urbana del Regno. Le città, principalmente quelle campane e della Terra di Lavoro, estremamente ostili al potere svevo, videro nella discesa di Carlo d’Angiò una possibile realizzazione dei loro vetusti desideri di maggiore autonomia. Dal canto suo l’Angiò fu molto abile nel crearsi nuclei di consenso interno durante la campagna militare.
Se ormai la leggenda nera di un potere svevo drasticamente ostile ad una vita economica e urbana autonoma rispetto alle volontà dello stato risulta fortemente ridimensionata dal punto di vista storiografico, è tuttavia indubbio che l’azione politica sveva fu spesso di natura repressiva, e ciò andò ad intensificarsi durante i primi anni del regno di Manfredi, caratterizzati da grandi rivolte e feroci repressioni (basti pensare alla città di Cava de’ Tirreni, rasa al suolo poco prima della battaglia di Benevento).
Tra sfortuna e negligenza va invece collocata la fallimentare difesa del regno, che trovò nella conquista angioina del forte di san Germano, uno dei baluardi del regno, uno dei punti più bassi e disonorevoli per lo schieramento svevo. Esso giunse presso il fiume Calore dopo numerosi insuccessi e ormai tremendamente demoralizzato, mentre le truppe di Carlo d’Angiò, seppur stanche per via della marcia e degli eventi bellici, avevano il morale alle stelle.
La battaglia di Benevento: saraceni, tedeschi, francesi e italiani nella contesa per il regno di Sicilia
Per via dell’ampia documentazione relativa alla battaglia di Benevento siamo in grado di descrivere, in maniere abbastanza precisa, la composizione degli schieramenti ivi presenti e le strategie da essi adottati. Questa ricchezza di fonti è cosa più unica che rara per uno scontro armato di epoca medievale, ulteriore riprova dell’importanza della battaglia sia presso gli spettatori coevi che per i cronisti che la trattarono successivamente.
E’ probabile che le forze in campo fossero grossomodo simili: tra i 4 e i 5000 uomini per parte. Le cifre, come sovente accade, furono ingrossate dai cronisti dell’epoca. Esse erano comunque di dimensioni decisamente ragguardevoli per una battaglia medievale. Le forze di Manfredi erano composte da soldati Saraceni provenienti da Lucera, cavalieri pugliesi e tedeschi. Le armature utilizzate da questi ultimi, acquisite forse tramite i buoni stipendi conferiti dal sovrano, erano all’avanguardia per l’epoca: costituite da cotte di maglia con piastre metalliche o in cuoio bollito poste come potenziamento alla difesa. I saraceni erano generalmente utilizzati come fanti o arcieri.
Per quanto concerne l’equipaggiamento dei cavalieri angioini esso era sicuramente meno all’avanguardia di quello svevo: utilizzavano una semplice armatura in cotta di maglia tipica della cavalleria francese. Nell’esercito angioino erano inoltre presenti vari corpi di fanteria, tra cui picchieri delle Fiandre e milizie guelfe dell’Italia settentrionale. Il cronista Andrea Ungaro riporta anche la presenza di vari cavalieri campani presso le fila angioine, forse ostili al dominio svevo per il trattamento vessatorio serbato dal re svevo verso le loro città.
Un’ulteriore differenza era però di grande rilevanza: le truppe sveve potevano usufruire di cavalli ben riposati mentre i destrieri angioini erano non poco provati dalla quasi fulminea discesa in Italia. Questo svantaggio, come vedremo più avanti, verrà ingegnosamente aggirato da Carlo d’Angiò, con uno stratagemma a dir poco determinante per le sorti della battaglia.
La battaglia di Benevento: svolgimento ed esiti
I due eserciti si trovavano separati sulle due sponde del fiume Calore. Gli svevi avevano la città alle spalle, i francesi invece si trovavano sotto il monte Caprara. Lo schieramento di Manfredi era diviso in tre file. La prima fila sveva era composta da cavalieri tedeschi e saraceni, la seconda prevalentemente da tedeschi, la terza invece era composta da nobili regnicoli e soldati ghibellini del settentrione e del centro Italia, capitanata dallo stesso Manfredi.
Tale divisione in tre schiere era un assetto convenzionale della cavalleria medievale: “un’avanguardia, una forza d’impatto e una riserva strategica” (Paolo Grillo). Lo schieramento angioino era, probabilmente, più disomogeneo nella composizione, essendoci discordanza tra le fonti rispetto al numero di battaglioni in cui era diviso il contingente (forse anch’esso era tripartito).
Andrea Ungaro riporta la presenza di cinque file o battaglioni. Nelle prime 4 era preponderante fanteria e cavalleria francese. Nell’ultima era presente la nobiltà italiana guelfa, tra cui i nobili campani sopracitati. Nella seconda fila di tale schieramento, secondo la descrizione di Andrea Ungaro, ci sarebbe stato lo stesso Carlo d’Angiò.
La battaglia tuttavia non fu un classico scontro frontale. La prima mossa fu di Manfredi, che posizionò i suoi arcieri saraceni nel mezzo della piana che separava i suoi eserciti. La finalità di questa scelta era forse quella di utilizzare i saraceni come esca. Gli angioini tuttavia non mossero la cavalleria, bensì un distaccamento di fanteria, facendo fallire il probabile piano svevo. Al muoversi della cavalleria provenzale Manfredi mosse quella teutonica, facendo così partire la battaglia campale vera e propria.
Inizialmente la foga dei cavalieri tedeschi parve rompere le fila angioine, tuttavia le sorti della battaglia, secondo varie fonti, furono ribaltate da un fine stratagemma angioino: prima della battaglia, consapevole di come i cavalli svevi fossero più riposati e quindi maggiormente preparati allo scontro, il futuro re Carlo consigliò a cavalieri e fanti di colpire le cavalcature dei nemici di punta, così da farli cadere dal destriero e in seguito infliggergli il colpo di grazia per terra con stocchi e pugnali, armi con punte acuminate atte a penetrare nelle fessure tra le placche delle armature e colpire i punti vitali.
Questo stratagemma a quanto pare cambiò le sorti della battaglia, portando persino la terza fila dell’esercito svevo, comandata dallo stesso Manfredi, ad intervenire. Forse il monarca cadde proprio in questo modo: caduto sotto il suo cavallo e in seguito ucciso a colpi di pugnale.
La battaglia di Benevento fu così vinta dalle truppe angioine. Il fronte svevo andò sfaldandosi, tra quelli che ripararono in esilio, i saraceni che tornarono a difendere il proprio insediamento a Lucera ( solo successivamente si arresero all’Angiò) e chi giurò subito fedeltà al nuovo monarca. Il corpo di Manfredi fu inizialmente seppellito con onore per volontà di Carlo d’Angiò. Tuttavia, venutolo a sapere Clemente IV ne fu talmente adirato da ordinare all’Angiò di seppellirlo in una fossa anonima presso il fiume Liri. Così fu fatto.
Terminava così la parabola sveva nel regno, eccezion fatta per la battaglia di Tagliacozzo, tentativo ultimo di ristabilire la dinastia Sveva sul trono di Sicilia.
–Silvio Sannino
Bibliografia
Paolo Grillo, L’aquila e il giglio, 1266: la battaglia di Benevento, Salerno editrice, Roma, 2017.
Andrea d’Ungheria, Massimo Oldoni (a cura di), Descrizione della vittoria riportata da Carlo conte d’Angiò, Francesco Ciolfi editore, Cassino, 2010.
Paolo Grillo, La falsa inimicizia, Guelfi e ghibellini nell’Italia del Duecento, Salerno editrice, Roma, 2018.
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