Il giovane osservatore del Golfo, ritratto di noi stessi
Ho sempre creduto che crescere fosse un atto incredibilmente responsabile ma tangibile solo a tratti, da avvertire in maniera sentita ma non troppo. Certo, le responsabilità aumentano così come i ritmi, spesso frenetici e al limite della sopportazione. Nonostante il lavoro e lo studio, però, avevo sempre deciso che avrei dato a me stesso una possibilità per alimentare la grande passione nata per la fotografia, una passione che non avevo alcuna intenzione di abbandonare o far spegnere sotto una pioggia battente di stress. Quel giorno il tempo libero scarseggiava ma durante la pausa pranzo trovai comunque il modo di passeggiare sui marciapiede del nostro luminoso Lungomare. Il sole stavolta illuminava a tratti, coperto da una coltre poco minacciosa seppur invadente. Quando fai il fotografo ogni cosa o persona diventa il soggetto perfetto: dalla coppia che si bacia a una scritta dai caratteri singolari. Perfino un cane che fa la pipì può nascondere un accenno di poesia, se sai come catturare l’attimo giusto. Io, dopo pochi minuti di passeggiata, scoprii di aver catturato l’attimo della mia intera esistenza.
Il giovane osservatore del Golfo: un ritratto di noi stessi
Curiosamente guardavo ambedue i lati della strada, trafficata di gente ma non di auto, per trovare una storia, uno spunto, qualcosa che riempisse quei minuti. Questo avvenne all’altezza del mare, guardando in giù, vicino agli scogli. Dovetti sporgermi lentamente, lo feci quasi per caso. Trovai però ciò che cercavo: un ragazzo, in maniera solitaria, sedeva su una sorta di palafitta naturale creata dagli scogli in mezzo all’acqua, come se quella fosse una minuscola isola dalla quale ammirare tutto il Golfo, Vesuvio compreso. Visto di spalle sembrava un ragazzo abbastanza giovane, un liceale o un universitario: alla sua sinistra aveva poggiato uno zaino maltrattato dal tempo e continuava, nonostante l’intenso vento primaverile, a guardare davanti a lui senza movimento alcuno, come fosse costretto a farlo da una forza più potente di lui: quella della bellezza. In mezzo al caos di persone e gabbiani credevo non mi avrebbe mai sentito arrivare, perciò decisi di scendere e raggiungerlo, per chiedergli di confermare le mie intenzioni di scatto. Finii la rampa di scale con relativa velocità ma, nonostante i miei passi fossero comunque tutt’altro che leggeri, il ragazzo non si scompose: in quel momento io non esistevo, c’erano solo il mare, il Golfo, il vento e i suoi pensieri. Di norma, avrei dovuto interrompere la sua meditazione per chiedere il permesso di scattare. Stavolta, contravvenendo a una regola, decisi di non farlo. Non per commettere torto ma unicamente al fine di non interrompere un momento nel quale mi rivedevo. Il me ragazzino era seduto lì affianco, insieme a lui. E ripensava a tutte le cose che davvero non andavano: i litigi casalinghi, la fidanzata infedele, la scuola che formava solo rancori e di certo non la sua coscienza. I soggetti della foto divennero immediatamente due e immortalare il momento fu quasi un’illusione: il ragazzo, ovviamente, era solo. Almeno dal punto di vista fisico. Al contrario di come mi ero precipitato all’ingiù, risalii verso la strada principale con grande calma e atteggiamento compassato. Lanciai un’ultima occhiata alle mie spalle, prima di andare: il giovane osservatore del Golfo era ancora lì, mentre fissava soltanto la vuota bellezza della sua anima. Fu inevitabile per me pensare al fatto che tutti, almeno una volta nella vita, siamo stati su degli scogli in mezzo al mare, in balia della nostra mente. Nessuno di noi sfugge a quell’istante, come nessuno può sfuggire alla bellezza di quella visione. La foto dell’osservatore del Golfo non l’ho mai venduta né regalata: è conservata in un cassetto speciale della mia scrivania. Servirà sempre a farmi capire che tutti, nella vita, siamo soli. Ma anche che questo, in fondo, non è ogni volta necessariamente un male.
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