Napoli è un paradiso, ma un Paradiso abitato da diavoli[1].

Ricordate la storia di Giuditta Guastamacchia, l’efferata assassina che uccise il suo giovanissimo sposo per amore e con la complicità di un prete? Anche il delitto di cui sto per parlarvi ha più o meno le stesse costanti: amore, pugnalate, un sacerdote.

Don Ciappa era, come ricordano alcune cronache dell’epoca, un religiosissimo uomo. Ma a questa affermazione si oppongono le informazioni giunte sino a noi attraverso le carte che raccontano il processo di cui fu protagonista, le quali descrivono tutt’altro che un uomo pio e devoto: egli, oltre ai suoi impegni di sacerdote, lavorava all’Archivio di Stato ed aveva molto spesso “impegni” di natura galante con donne del postribolo dei coniugi Miranda, Francesco ed Anna, situato in vico Politi numero 25.

Nel febbraio del 1817 nella casa dei due lenoni arrivò una nuova ragazza: era Giuseppa Pinto, una donna precedentemente mantenuta da un amante da cui era stata abbandonata.

Don Ciappa non aveva mai avuto preferenze nello scegliere le prostitute con cui stare e, quando i Miranda gli proposero l’ultima arrivata, fu ben lieto di accettare l’offerta. Rimase però talmente ammaliato da Peppina che, una volta uscito dalla stanza, decise che avrebbe dovuto essere sua: diede una somma di denaro a Francesco affinché quella donna non stesse con altri uomini al di fuori di lui e promise alla ragazza che, ben presto, le avrebbe dato una casa ed una retta mensile.

Ma i Miranda, attirati dal guadagno e conoscendo gli orari in cui era solito arrivare Don Ciappa, proposero la Pinto a molti altri avventori.

Fra questi c’era Carlo Capecelatro, un nobile appartenente ad un’antica famiglia napoletana e discendente di quel Carlo che, nel 1647, fu uno dei più accaniti sostenitori del re contro della rivolta popolare guidata da Masaniello.

Capecelatro, dopo essere stato con lei, rimase talmente preso dalla donna da prometterle mari e monti: dichiarò anche lui ai Miranda la sua volontà di diventare protettore di Peppina ed iniziò a farle visita in modo abitudinario.

I due lenoni, per un certo periodo, riuscirono a reggere il doppio gioco con il “cavaliere abate” ed “il galantuomo di alta statura”, nomignoli con cui erano conosciuti i due avventori: mentre il primo, impegnato durante il giorno, si recava al postribolo la sera, il secondo era solito giacere con la Pinto durante il giorno. Nel processo poi venne alla luce che, oltre a non rispettare “l’esclusiva” chiesta dai due uomini, i due coniugi concedevano la donna anche ad altri frequentatori della loro casa.

Una sera, però, l’intrigo venne alla luce: i due rivali in amore si recarono alla stessa ora nella casa di vico Politi e, sentendosi feriti nell’orgoglio per il fatto di star condividendo la stessa donna, iniziarono a litigare furiosamente.

Ciappa offese Capecelatro con gli epiteti “sfelenza e birbante” mentre quest’ultimo, chiamando in causa un’altra occupazione del sacerdote, ovvero quella di prestare denaro con interessi altissimi, gli disse che era un “usurajo che vivea del sangue de’ poveri pensionisti”. E, se i due lenoni non fossero intervenuti, probabilmente avrebbero concretizzato le offese con le botte.

Dopo la scenata il nobile rampollo andò via mentre Don Ciappa, dichiarandosi oltremodo offeso dagli affronti ricevuti, chiese a Francesco Miranda di diventare complice della sua sanguinosa vendetta: Capecelatro avrebbe dovuto pagare con la vita il suo amore per Giuseppa Pinto.

Inizialmente Miranda si mostrò restio a macchiarsi le mani con un omicidio ma, persuaso dalle parole del sacerdote che, fra un bicchiere di vino ed un mostacciuolo, gli promise una bottega per lavorare onestamente come zagarellaro (antico mestiere che identificava un merciaio) e seicento ducati d’oro in anticipo, la sua brama di denaro l’ebbe vinta sulla sua integrità.

Tornato a casa, Francesco informò sua moglie Anna degli accordi presi. Inizialmente quest’ultima cercò di spingere il marito ad imbrogliare il cavaliere abate tenendosi il denaro senza commettere il delitto ma, poiché egli affermava che avendo promesso sul suo onore non poteva più tirarsi indietro e che temeva l’ira di Don Ciappa, architettarono insieme un piano.

La mattina del 18 marzo Francesco si recò a casa del “galantuomo di alta statura” per dirgli che Giuseppa aveva chiesto di vederlo quella sera stessa. Non sapeva, Capecelatro, di aver appena ricevuto ed accettato l’invito per la sua morte.

Appena si fece buio, arrivato al numero venticinque di vico Politi, scorse sulla soglia Anna che, con un fiasco, fingeva di andare a comprare del vino. Mentre parlava con lei da una stradina lì vicino uscì Francesco coperto con un cappuccio che, con un pugnale datogli dallo stesso mandante, colpì alle spalle il nobile rampollo. Ma la ferita non fu mortale e Capecelatro iniziò, dolorante, a cercare aiuto, chiedendo ad Anna di accompagnarlo.

Ma questa si limitò a seguirlo da lontano per accertarsi che il delitto fosse andato a buon fine. E così fu: esalando l’ultimo respiro su una sedia portata da una vicina, l’ultima cosa che Carlo disse fu che apparteneva alla famiglia Capecelatro e che non conosceva l’uomo che l’aveva colpito.

Il giorno dopo, però, Francesco fu arrestato e negli interrogatori che seguirono negò persino di conoscere la vittima ma, smentito da un domestico del nobile che l’aveva visto parlare con il suo padrone la mattina dell’omicidio, il suo coinvolgimento fu ben presto chiaro. Senza una confessione, le indagini proseguirono.

Almeno così fu fino a luglio: Francesco, spaventato dalle scoperte della polizia, dichiarò che avrebbe detto tutta la verità sul caso se gli fosse stata garantita l’immunità. La corte accettò con la riserva di dargliela se non fosse stato il protagonista dell’azione ed egli, aggiungendo di volta in volta alle sue dichiarazioni sempre più dettagli per ottenere la scarcerazione, finì per dire tutta la verità, arrivando a coinvolgere persino sua moglie.

Il processo si concluse nel maggio del 1818 e tutti e tre i colpevoli furono condannati alla pena di morte.

Per secoli all’Archivio di Stato gli impiegati si sono contesi il “tavolino dell’impiccato” convinti portasse fortuna.  E la scrivania Don Cima Ciappa è tutt’ora lì, capace di riuscire a suscitare curiosità verso un giallo di due secoli fa.

-Federica Russo
Il bellissimo disegno è di Alex Amoresano

[1] Titolo di un’opera di Benedetto Croce in cui lo storico racconta il caso dell’omicidio qui narrato.

Fonti:
L’articolo è nato dalla curiosità che mi ha ispirato un articolo Vittorio del Tufo del “Mattino di Napoli” di domenica 25 febbraio 2018.

Ho poi approfondito l’argomento grazie agli atti originali del processo disponibili a questo link. Ne consiglio la lettura a coloro che sono rimasti affascinati da questa storia per i dettagli riportati: pensate che viene delineata l’esatta posizione delle ferite di Capecelatro e sono descritti nei minimi dettagli gli oggetti che aveva in tasca!

 

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