La leggenda del drago di Napoli
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Dire Napoli è dire leggenda. Tutti, in qualche modo, abbiamo sentito parlare di quella Napoli che si potrebbe definire “astorica”: dimora di esseri acquatici e figure eteree, perturbanti. Quella Napoli che disintegra silenziosamente ogni barriera tra il reale e l’immaginazione, figure che, se pur frutto dell’immaginazione, prendono immediatamente vita diventando parte e motivo fondamentale di comportamenti, modi di dire e fare… un’antropologia leggendaria.

Tra quella moltitudine di leggende napoletane, c’è anche quella che vede come protagonisti un uomo, la Vergine e un drago.

Cecile Walton, “The dragon who kept the watch”

Porta Capuana fu la tana di un drago

Fino al 1700 trovò particolare risonanza la leggenda secondo cui Porta Capuana fosse abitata da un drago, creatura iraconda e dalla lingua biforcuta che, stando alla leggenda, arrivò a spingere i napoletani ad evitare quella che, allora, era sostanzialmente la porta della città, il suo punto di accesso. 

Porta capuana, nel tempo astorico della leggenda, era una zona paludosa e avvolta nella nebbia… quale luogo migliore, dunque, come rifugio e zona di caccia per un drago? In una Napoli che, tra l’altro, di poco si allontana dai racconti dello scrittore Tolkien  (autore de “Il signore degli anelli).

Tra le abilità dell’aberrante ma maestoso essere, vi era quella di nascondersi nella nebbia e attaccare chiunque passasse per Porta Capuana, vittime certamente ignare, in quanto i napoletani, timorosi come erano dell’eventuale presenza del drago, non avrebbero commesso un simile e mortale errore. Gismondo, tuttavia, si avventurò nel terrificante territorio della creatura.

Gismondo, un sogno, la Vergine e il drago

Gismondo era un nobile e fervente cattolico, desideroso di recarsi a Napoli, dove San Pietro avrebbe celebrato la sua prima messa. Il nobile, armato di fede e preghiere, attraversò la palude del drago per raggiungere la città e, contro ogni aspettativa, ne uscì incolume. Il motivo di quella salvezza fu spiegato a Gismondo dalla Vergine, la quale gli apparve in sogno. Maria, commossa dall’umiltà dell’uomo, dalla sua fede e dall’assenza di tracotanza con cui aveva attraversato la palude, rivelò al nobile di aver pugnalato il drago e di aver liberato Napoli da ogni male e timore a riguardo. 

La Vergine, tuttavia, sollecitò Gismondo a cercare il cadavere del drago e, lì dove sarebbe stato trovato, erigere una chiesa nel suo nome. Rinsavito, il nobile cercò il drago, lo trovò ed ordinò la costruzione della chiesa di “Santa Maria ad Agnone” (dal latino Anguis, serpe; rimando all’episodio della Vergine e il drago). Unica testimonianza di quella costruzione è il “Vico della serpe” chiaro e inconfondibile rimando alla spaventosa creatura alata.

L’interpretazione della leggenda alla luce del Cristianesimo

Conosciuta la leggenda e attestata la presenza di figure appartenenti al mondo del Cristianesimo non si può non  prendere consapevolezza del suo valore allegorico-cristologico. Il male, il diavolo è da sempre rappresentato, nel Cristianesimo, come un serpente, una serpe o, basti pensare all’episodio di San Giorgio, come un drago. 

Gismondo, invece, è un fervente cattolico desideroso di recarsi a Napoli, dove San Pietro avrebbe iniziato a diffondere la parola di Cristo. Il nobile si salva grazie alla fede, attraversando senza pericoli una palude che, in questa chiave di lettura, è una palude del peccato che offusca (la nebbia), una selva dantesca. Il fine della leggenda sembrerebbe quello di dimostrare come con la luce della  fede sia possibile attraversare l’oscurità e trafiggere il male, diffondendo la parola di Cristo e rendendo grazie al Signore e alla Vergine Maria.

In realtà la storia avrebbe radici ancora più profonde. 

Bartolomeo Capasso, studioso del 1800, fa chiaro riferimento al ritrovamento a Vico della serpe, di un frammento raffigurante un serpente e appartenente a quella che sarebbe dovuta essere una statua dedicata ad Esculapio (o Ascelpio), dio guaritore e costantemente raffigurato, da greci e romani, nell’atto di impugnare uno scettro avvolto da un serpente, simbolo ancora oggi adottato per indicare alcune professioni sanitarie e quella del farmacista.

Il messaggio della leggenda, dunque, è ancora più chiaro: il male è il paganesimo e l’uccisione del drago seguita dall’edificazione della chiesa  rappresenta la vittoria del Cristianesimo sulle credenze pagane.

Il drago nell’affresco  nascosto di Aniello Falcone conservato alla chiesa di San Giorgio Maggiore

A “Piazzetta Crocelle”, lungo via duomo, sorge la Chiesa di San Giorgio Maggiore, celebre per la presenza di un affresco di Aniello Falcone raffigurante San Giorgio, il santo cavaliere che trafigge il drago, simbolo del diavolo e, quindi, del male. Il soggetto, la scena riprende la tradizionale iconografia: San Giorgio che trafigge il drago con la croce, la creatura mostruosa con le fauci  spalancate e la fanciulla ( una principessa) che fugge dal destino di vittima sacrificale. 

S. Giorgio trafigge il drago, Aniello Falcone

Nell’affresco di Aniello Falcone, tuttavia, c’è quel velo di tragicità emotiva  non sempre presente: la fanciulla è terribilmente spaventata, fugge gettando le braccia all’aria ma, allo stesso tempo, voltandosi indietro, come se fosse attratta dal gesto del santo.

San Giorgio, in quanto santo, è meno dinamico della principessa ma già più espressivo rispetto ad altre raffigurazioni. Il santo è sicuro del proprio gesto, non teme il drago, non teme il male ma, in quanto comunque umano, traspare, attraverso la bocca leggermente aperta, lo sforzo del coraggioso atto. Degna di ammirazione è l’espressione del cavallo bianco, con gli occhi spalancati e rivolti al drago e la sua fisionomia: il ventre, ancora una volta per sottolineare la forza e il coraggio del gesto, è evidentemente rigonfio.

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