Una mattanza rimasta impunita: la strage di via Caravaggio e il triplice omicidio di un assassino senza volto
Il silenzio assordante
Nella notte tra il 30 e il 31 ottobre 1975, in via Caravaggio, una nota via del quartiere Fuorigrotta, l’aria è intrisa delle prime frescure autunnali. La strada è deserta, e il silenzio assordante è interrotto solo dal ronzio lontano di qualche motorino o dall’autobus di linea.
Via Caravaggio, civico 78
Al 4° piano del civico numero 78 vive la famiglia Santangelo: Domenico, detto “Mimmo”, pensionato di 54 anni ed ex capitano della marina mercantile, sua moglie Gemma Cenname, ostetrica di 50 anni e Angela, la figlia di Domenico, una ragazza di 19 anni impiegata dell’Inam, avuta dal precedente matrimonio. Completa il quadretto il loro cagnolino, uno yorkshire di nome Dick. La cena è pronta e mentre Gemma apparecchia la tavola e Mimmo è impegnato a sistemare i documenti nel suo ufficio, Angela, febbricitante, è distesa sul letto, intenta a scrivere una lettera d’amore al fidanzato e futuro marito Nicola.
Quiete spezzata
Una tranquillità improvvisamente interrotta dal suono del campanello. Mimmo, insieme al suo fedele amico a quattro zampe, si dirige verso la porta, ignaro del pericolo che lo attende. Dall’altra parte, l’assassino è pronto a sterminare l’intera famiglia.
Sono le 20:00 dell’8 novembre, circa otto giorni dopo il tragico evento, la Polizia ritrova i corpi dopo una segnalazione del nipote di Gemma Cenname, Mario Zarrelli, che non riuscendo a mettersi in contatto con la famiglia Santangelo, decide di avvertire le autorità competenti.
L’assordante silenzio di via Caravaggio viene stravolto dall’intervento delle forze dell’ordine, con i lampeggianti delle auto che illuminano le pareti del palazzo. I vigili del fuoco si calano dal 5° piano, raggiungendo il balcone dell’appartamento per poi entrare nell’abitazione dopo aver rotto il vetro della finestra.
Rimangono sconvolti dalla tragica scoperta, costretti a entrare con le mascherine a causa del cattivo odore provocato dai tre corpi in decomposizione da più di una settimana.
La scoperta sconvolgente
Lo scenario è raccapricciante: sul pavimento, due strisce di sangue partono dallo studio e dalla cucina, entrambe dirigendosi verso il bagno. Sulla radio, due bicchieri di whisky, indizio di un possibile rapporto di conoscenza tra Domenico e il suo assassino. Sangue ovunque, in cucina, accanto alla tavola apparecchiata con tutte le pietanze pronte ma mai consumate, sull’interruttore della luce, sul cuscino e lungo il pavimento, dove si nota un’impronta di scarpa, numero 42 circa.
Mozziconi di sigaretta sul davanzale della finestra e tutte le porte delle stanze chiuse per evitare il diffondersi del cattivo odore.
Nella vasca ricolma d’acqua vengono ritrovati i corpi di Domenico, sua moglie Gemma e il cane. Si presume che l’assassino abbia conoscenze nel campo medico, visto che l’acqua rallenta la putrefazione dei corpi in decomposizione. Il corpo della giovane Angela riceve un trattamento diverso: viene lasciato in camera da letto, avvolto in una grande coperta intrisa di sangue. Le vittime sono state tramortite e poi sgozzate una ad una, mentre il cane è stato soffocato con la sua stessa copertina.
Alla ricerca della verità della strage di Via Caravaggio
Dalle testimonianze degli inquilini si deduce che l’assassino, dopo aver compiuto il massacro, sia rimasto nell’appartamento almeno cinque ore, dalle 23:30 fino alle 5 del mattino circa. Con ogni probabilità, durante la strage l’assassino ha utilizzato dei guanti in lattice, poiché le impronte sul bicchiere non sono leggibili. Nel 1975, il DNA è ancora fantascienza.
Dopo accurate verifiche, si nota la mancanza della pistola di Mimmo, del diario di Angela e dell’arma del delitto. Dal garage condominiale è sparita l’auto di famiglia, una Lancia Fulvia berlina amaranto, successivamente ritrovata in via Saverio Baldacchini con la batteria totalmente scarica.
Un testimone racconta che la sera del delitto, mentre tornava a casa verso le 2:00, notò quell’auto correre ad alta velocità, con al volante un uomo grande e grosso con molti capelli, intravedendolo solo per un attimo. Quella descrizione indirizza gli inquirenti verso Domenico Zarrelli, fratello di Mario, l’uomo che aveva contattato la polizia. Studente fuori corso, dedito alla bella vita, sempre a corto di denaro, fidanzato con una ballerina sudamericana, con un aspetto che corrisponde alla descrizione fatta dal passante: alto e robusto, con una folta capigliatura.
Essendo una macchina dagli interni molto stretti e abbastanza bassi, un uomo come lui non può non aver sfiorato il tetto dell’auto stessa, ma questo non sembra interessare agli inquirenti.
C’è un’identificazione, c’è l’indubbia prestanza fisica dell’uomo, c’è il suo bisogno di denaro e la sua vita turbolenta. In più, Domenico presenta delle ferite alle mani. Afferma di essere caduto sul porfido, spingendo la sua macchina in panne, ma gli evidenti segni dei denti del cagnolino Dick non faranno credere a quanto raccontato.
Rosso raptus
Domenico, dichiarato colpevole, viene arrestato il 25 marzo 1976 e condannato all’ergastolo in primo grado il 9 maggio 1978, accusato di aver compiuto la strage in preda a un raptus dopo essersi visto rifiutare la richiesta di un prestito di denaro da parte della zia.
Nell’appartamento viene rinvenuta anche la copia di una denuncia nei suoi confronti, redatta ma mai depositata, che denota un rapporto conflittuale con la vittima.
Inutile ogni alibi fornito. Tuttavia, la sera del delitto afferma di essere stato al cinema per assistere al film “Amici Miei”, presenza confermata anche dal personale del cinema, nonostante un testimone riferisca di averlo visto in sala il giorno dopo, mettendo in dubbio il racconto di Domenico.
Un vigile in servizio quella sera testimonia che la sera successiva alla tragedia,qualcuno ha acceso una luce in casa dei Santangelo. Azione ritenuta dalla polizia un chiaro segno di depistaggio. Inizia così un calvario per il giovane, che tuttavia può contare sull’appoggio del fratello avvocato.
Vittoria a metà
Dopo la condanna in primo grado, fu assolto in appello ma la Cassazione in un primo momento annulla la sentenza. Durante la detenzione, Domenico studia legge, riuscendo a diventare avvocato. Nel processo d’appello, Mario Zarrelli smonta i flebili indizi su cui si era basata l’accusa. L’alibi del cinema è confermato, e l’impronta n. 42 non corrisponde alla sua, visto che Zarrelli porta un 46. Riguardo alla possibilità che Domenico sia andato il giorno dopo a modificare l’impronta, stampandola nel sangue ormai coagulato, è solo una teoria molto fragile.
Il 6 maggio 1981, la Corte assolve per insufficienza di prove Domenico, una vittoria solo a metà perché non riesce a conquistare l’assoluzione con formula piena. Cosa che avviene nel 1985, quando un nuovo processo stabilisce che Domenico Zarrelli è assolutamente estraneo ai fatti, dunque non colpevole. Ipotesi definitivamente confermata dalla Cassazione.
Nel 2006, Domenico Zarrelli ottenne un risarcimento dallo Stato per danni morali e materiali pari ad un milione e quattrocentomila euro. Si riparte dunque da zero.
Forse il movente è da cercare nella vita dei Santangelo, ed è da qui che si riparte. Si indaga su Mimmo e la sua vita apparentemente anonima, così come è tranquilla la vita della figlia Angela, una ragazza che a 19 anni già lavora, molto riservata. Gemma, invece, spesso appare preoccupata per qualcosa legata al lavoro del marito, che riceve strane persone, forse coinvolto in qualcosa di illecito, unica vera motivazione nascosta nell’inquietudine che sembra esserci in famiglia. Di certo si percepisce una tensione che spaventa Gemma e anche la figlia Angela. Forse tutto è legato a un capanno che i Santangelo hanno affittato a un misterioso ingegnere, nel quale è avvenuto qualcosa. Nel locale ci sono brandine e strani strumenti, utilizzati forse per fini illeciti. Oppure i Santangelo sono stati soltanto sfortunati spettatori.
Ne bis in idem: la strage di Via Caravaggio rimane senza colpevole
La polizia dunque inizia ad indagare su altri aspetti del passato dell’uomo, come ad esempio informazioni sul suo primo matrimonio, raccogliendo però solo indiscrezioni e null’altro.
Qualche anno dopo il caso sarà archiviato come “reato compiuto da ignoti”.
Nel 2011 si verifica una sconcertante scoperta: il pm Giovanni Melillo ordina che le prove vengano rianalizzate e nel 2014 arriva la conferma che quel DNA sulla sigaretta e sul canovaccio appartengono a Zarrelli e ad altri due soggetti non identificabili (“Ignoto 1” ed “Ignoto 2”) che potrebbero aver aiutato l’uomo. Tuttavia secondo il principio “ne bis in idem”, che prevede che non si possa processare una seconda volta per lo stesso reato una persona già assolta con sentenza definitiva, tutto diventa inutile.
Reperti poi distrutti prima della riapertura del caso da parte del GIP.
Della belva feroce di via Caravaggio non viene dunque accertata l’identità, non ci sarà un movente e quel delitto resterà confinato tra quelli consumati nell’oscurità e destinati a restare un mistero.
Oggi quella casa è proprietà degli eredi e abitata da nuovi acquirenti. Quasi del tutto rinnovata, resta intatta infatti solo una piccola parte del vecchio appartamento, proprio quella in cui fu massacrata la famiglia Santangelo, nella palazzina di via Caravaggio che presenta le stesse fattezze dell’epoca.
Resterà per Napoli indelebile questa macchia di sangue che ha segnato una tragica sera d’autunno di 45 anni fa.
Sitografia
Il Mattino (www.ilmattino.it)
Wikipedia.it
Stylo24.it
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