Che sia bianco, rosso o rosato, il Lacryma Christi del Vesuvio è forse il vino che più rappresenta il popolo napoletano. Ha una storia millenaria, un carattere forte e riconoscibile, è resiliente ed ha un viscerale legame con la sacralità ed il mito.
Prodotto unicamente in sedici comuni vesuviani, rientra nella DOC Vesuvio dal 1983, un disciplinare volto a tutelare e a consentire la produzione di questo vino grazie all’assemblaggio di più uve: Coda di Volpe, Caprettone, Falanghina e Greco, per il Lacryma Christi bianco; Piedirosso (Per’ ’e Palummo), Sciascinoso, Olivella e Aglianico per il Lacryma Christi rosso e rosato. È uno dei pochi vini europei prodotto da viti a piede franco, ovvero senza necessità di dover essere innestate su viti americane, perché il suolo sabbioso le rende immuni alla fillossera, un temibile parassita che distrusse buona parte della viticoltura europea a metà ottocento.
Le origini del nome “Lacryma Christi”
Le origini del nome Lacryma Christi affondano le radici nelle leggende tramandate oralmente da secoli: secondo una prima versione, dopo la cacciata dal paradiso di Lucifero, questi, cadendo inesorabilmente verso gli Inferi, strappò un lembo di Paradiso trascinandolo con sè. Tale pezzo sarebbe stato portato proprio nel Golfo di Napoli, nel luogo dove ora sorge il Vesuvio. Fu allora che Dio, riconoscendo questo come il luogo del furto, pianse per il dispiacere e da quelle lacrime sarebbe nata la prima vite sul Vesuvio.
Una seconda versione, invece, narra di un Gesù in pellegrinaggio; durante il suo viaggio incontrò un eremita che viveva sul Vesuvio al quale chiese dell’acqua per dissetarsi e, per ripagare l’uomo del suo gesto caritatevole, trasformò l’acqua dell’uomo nell’eccellente vino che tutti conosciamo.
Quel che è certo è che per un lungo tempo la produzione di questo vino, considerato sacro, fu ad appannaggio quasi esclusivamente di alcuni monaci, che ne preservarono la produzione e ne custodirono le vigne e la tradizione in un insediamento a “Turris Octava”, l’attuale Torre del Greco.
Nella “Casa del Centenario” di Pompei, chiamata così perché scoperta nel 18° centenario dall’eruzione del 79 d.C., è presente e ben conservato un affresco che raffigura il dio Bacco con alle spalle il Vesuvio, contraddistinto da una sola cima. Infatti, proprio per questo, alcuni storici lo identificano con il monte Nisa, dove secondo la leggenda, Bacco fu allevato. Resta, comunque, un’importante testimonianza dell’antichissima tradizione e vocazione enologica della zona vesuviana, fertile e ricca di mineralità.
Lacryma Christi? Eccellenza greca
Lo sapevano bene i Tessali, popolazione greca che per prima portò, nel quinto secolo a.C., nelle nostre terre il “vino greco” (da cui prenderebbe il nome Torre del Greco) che trovò nel clima vesuviano il giusto ambiente pedoclimatico per crescere e dare frutti eccellenti.
Nel suo Naturalis Historia (77 d.C.), Plinio il Vecchio già citava l’uva Palommina come eccellenze apprezzata e degna di nota, mentre per Marziale il dio Bacco in persona “preferiva questa zona alle natìe colline di Nisa”.
La prossima volta che ne sorseggerete un calice lasciatevi quindi ispirare da questo vino leggendario. Apprezzatene la spiccata mineralità vulcanica, il colore intenso e i profumi netti e decisi.
Queste vigne, così come la ginestra raccontata da Leopardi, sfidano ogni giorno la natura ed il vulcano dormiente, traendone il meglio e donandocelo sotto forma di profumi, colori e sapori!
Umberto Rusciano
Leave a Reply