Nora: Devo scoprire chi abbia ragione, se la società o io.
H. Ibsen, Casa di bambola, atto terzo
Henrik Ibsen è stato il granello di sabbia che infastidisce il buon costume. Una voce che oggi risuona moderna perché dirompente tra le trame sociali del suo tempo, un tempo non così lontano, a pensarci bene, ma che ci appare oggi profondamente distante, differente, destrutturato nei costumi, negli obblighi e nelle apparenze. E questo anche grazie a personaggi come Ibsen.
Quando George Bernard Shaw raccontò della messa in scena in Inghilterra di uno dei drammi più famosi di Ibsen, Casa di bambola, si espresse così: “me ne rallegrai e stetti a guardare la rovina e la distruzione che questo dramma portò tra gl’idoli e i templi degli idealisti, come un giovane corrispondente di guerra sta a guardare i quartieri più malsani di una città mentre vengono bombardati”.
Il teatro di Ibsen è proprio questo: distruzione di idoli. Ma cosa c’entra questo con Napoli?
Dalla Norvegia all’Italia
Nato e cresciuto nella cittadina norvegese di Skien, Henrik Ibsen visse e scrisse a lungo fuori dalla Norvegia. Frequentò molto l’Italia: visse per anni con la moglie e il figlio a Roma, dove si trasferì per la prima volta nel giugno 1864 e dove compose Brand, sceneggiatura pubblicata in Norvegia nel 1866, che valse al suo autore l’appannaggio di artista.
Tra Ischia e Sorrento: Peer Gynt
Nel maggio del 1867 decise di spostarsi più a sud, lungo le soleggiate coste campane. Visse prima a Ischia, dove alloggiò nella Villa Pisani, denominata oggi per l’appunto Casa Ibsen, e pochi mesi dopo, ad agosto, si spostò a Sorrento. In questo periodo, immerso in un lavoro metodico ed operoso, ma senza farsi mancare qualche passeggiata sul mare, Ibsen scrisse il dramma Peer Gynt.
L’amico Jörgen Vilhem Bergsøe, anche lui scrittore, anche lui sceso dal nord Europa per godersi il bel clima, caldo e salato, della penisola sorrentina, scrisse che con Ibsen era solito prendere la carrozza per arrivare ad una pineta nella zona di Massa Lubrense. Qui i due si fermavano a passeggiare e ad ammirare il panorama: il mare, il profilo di Capri e del golfo napoletano all’orizzonte.
Ibsen ad Amalfi: Casa di bambola
Ibsen tornò in Italia di nuovo, per più tempo questa volta: tra il 1878 e il 1885. Nel giugno del ‘79, mentre si trovava a Roma, scrisse così in una lettera:
“Ora fa piuttosto caldo a Roma, perciò entro una settimana ce ne andremo ad Amalfi che, essendo vicina al mare, è più fresca, ed offre l’opportunità di andare al mare. Intendo completare lì una nuova opera drammatica in cui sono ora profondamente immerso (…) . Giù ad Amalfi, dove prima c’era un monastero con grandi stanze, ora c’è un albergo, ed è proprio là che voglio soggiornare”.
Questo monastero amalfitano è un ex convento francescano di XIII secolo, riconvertito in albergo storico dal nome Hotel Luna Convento. Ibsen alloggiò qui, in una stanza affacciata sul mare, e la nuova opera drammatica cui accenna è Casa di bambola.
Nora: una donna ibseniana
Casa di bambola è uno spaccato di vita borghese in tre atti, uno spiraglio nella normale vita matrimoniale dei signori Helmer. Lui uomo per bene e di successo, appena nominato direttore di banca e lei, Nora, “un lucherino sventato e delizioso”, come la definisce il marito, una persona che vive per essere moglie affascinante e madre premurosa, ma nulla di più. Un vezzo a decorazione della casa, un uccellino canterino in una gabbia, ma nulla di più.
Con la sua allegria frivola, quasi infantile, però, Nora maschera uno spirito saldo e audace che la spinge a intervenire pur di salvare il marito da una brutta malattia, fino ad ottenere i soldi per portarlo al sud, in Italia, a Capri. Nora che per questo suo errore, per essersi immischiata negli affari che, da donna, non le competono, rischia di perdere il buon nome della sua famiglia, di suo marito, Nora che è pronta a tutto, anche al suicidio, Nora che scoprirà di essere una creatura umana, indipendente e autonoma come un qualsiasi uomo.
Capri e la tarantella di Nora
In tutto questo, la bella isola di Capri fa da sfondo lontano e immaginario. È il luogo dove il marito recupera la sua salute e dove Nora riesce ad arrivare contando solo sulle sue forze, è il luogo in cui, magari in tempi più sereni, la famiglia potrà tornare per godersi il mare. Ma è anche il luogo dove ha comprato il suo bel vestito da pescatrice napoletana e dove ha imparato la tarantella che danzerà quando sarà convinta di essere vicina alla fine e quel ballo sarà per lei l’ultimo, estremo atto di vita.
Così, durante le prove, la tarantella di Nora è una danza nervosa, frenetica, disperata. “Senza questa furia paurosa! – le dice il marito guardandola – Sii di nuovo la mia cara piccola allodola”. Ma nel momento della vera esibizione, forse per uno scatto estremo di lucidità, la tarantella si carica della sua vitalità, di passione audace, di sensualità, e questo contrasto colpisce il lettore come un archetto furioso colpisce e stride sulle corde tese di un violino.
Spettri a Sorrento
Tra giugno e novembre del 1881 Ibsen tornò a Sorrento e alloggiò all’Imperial Hotel Tramontano. Nel libro memoriale dell’albergo scrive così: “Che incanto questa terra, tutto vi fiorisce deliziosamente!… Sorrento m’è cara come una seconda patria!!”
Stava scrivendo Spettri, un’opera teatrale che è in qualche modo in continuità con Casa di bambola, che ne è il seguito intellettuale, più maturo, più complesso, più estremo. Chissà, forse Ibsen se ne stava seduto alla scrivania della sua stanza, guardava il mare sorrentino dalla finestra e la sua mente veniva trasportata nella sua Norvegia, alla sua vita vera, lontana da quella terra incantata. Così, l’azzurro limpido e luminoso del panorama si trasformava “nel cupo paesaggio del fiordo avvolto da una pioggia monotona e incessante”: l’esterno che fa da sfondo al dramma della famiglia Alving in Spettri.
Il sole dell’Italia, di Sorrento, è ancora una volta l’immagine lontana della gioia di vivere. Così dice Osvald, personaggio in cui si legge molto di Ibsen, del suo rapporto con l’arte:
“E poi anche questo tempo, questa pioggia che non finisce mai, che è capace di andare avanti per settimane, per mesi… un raggio di sole uno se lo può sognare, che dico, tutte le volte che sono venuto qui a casa non mi ricordo d’aver mai visto un raggio di sole, neanche uno…”
Osvald dal palcoscenico pensa a Parigi, Ibsen doveva pensare a Sorrento. E proprio questo sole lontano, immaginato soltanto, sorge drammatico nell’ultimo atto attraverso la voce di Osvald, che al chiudersi del sipario invoca in un sussurro: “Il sole, il sole…”
Claudia Grillo
Henrik Ibsen, Casa di bambola, Mondadori, 2019, traduzione di E. Pocar
Henrik Ibsen, Spettri, Garzanti, 2019, traduzione di C. Magris
Luigina de Vito, Henrik Ibsen a Sorrento, La terra delle sirene, 2007, n. 26, pp. 15-28