Eredi dei menestrelli, dei trovatori e – perchè no? siamo nella greca Napoli – degli antichi rapsòdi, i posteggiatori napoletani vagavano per piazze e bettole oppure si sistemavano per qualche tempo, sovente a gruppi, nei ristoranti più frequentati dai ricchi e dai forestieri. Dopo le canzoni andavano per la “chetta”, ossia giravano con il piattino per raccogliere le offerte. Orgogliosi, non consideravano quelle monete un’elemosina bensì il minimo prezzo pagato all’arte.
Etimologia
Il più recente dei vocabolari dialettali napoletani, alla voce “pusteggiatore”, spiega: “chi custodisce le macchine in sosta, guardamacchine; suonatore ambulante”. Il guardiano, regolare o abusivo, delle automobili è ormai più “posteggiatore” del musicista girovago. A difesa della memoria storica dei concertini napoletani resta il genere femminile che ancora designa l’idea del complesso musicale (“a pusteggia”) mentre al recinto delle macchine in sosta viene attribuito il genere maschile, di conio più fresco (“o’ pusteggio”).
Posteggia da “puosto”, luogo occupato da chi eserciti un’attività rivolta al pubblico, venditore ambulante o posteggiatore con strumenti musicali.
Il termine “posteggia” è spuntato, però, in epoca non troppo remota e per lungo tempo è stato tenacemente rifiutato da cantori e suonatori, quasi avesse per loro, gente d’arte, un significato riduttivo, da respingere con dovuto garbo per farsi segnalare con l’appellativo più onorevole di “professori”, professori di concertino.
La storia dei posteggiatori
Secondo l’opinione di studiosi di metrica, nella forma della melodia napoletana si ripeterebbe la “terza minore” dei Greci antichi. I posteggiatori eredi dei rapsòdi alla Omero? Difficile stabilirlo con sufficiente ragionevolezza.
Ma certamente l’origine dei posteggiatori rinviene in epoca di trovatori e menestrelli, cioè nel Medioevo. In una Napoli racchiusa tra il porto, le pendici del Vomero e, a oriente, il Castel Capuano, risuonavano mattina e sera le voci dei menestrelli. Ci volle, nel 1221, un’ordinanza di Federico II di Svevia per limitare l’ondata di canti e suoni. L’abitudine fu dura da estirpare e gli ordini regali non sortirono grandi effetti. Del resto, anche gli uomini di sangue blu erano presi dalla frenesia: Matteo Spinelli, nei suoi Diurnali, racconta che, verso il 1250, Re Manfredi “spisso la notte asceva cantando canzuni, e con isso ievano due gran romanzaturi”.
Giovanni Boccaccio, che soggiornò a Napoli dal 1327 al 1339, vide e sentì “…qui i marini liti et i graziosi giardini, d’infiniti stromenti, d’amorose canzoni, così da giovani come da donne fatte sonate e cante, risuonano”.
Nel Quattrocento i suoni e le voci dei musici posteggiatori già volteggiavano nelle taverne, numerosissime, frequentate da soldati, studenti, giocatori, prostitute, viaggiatori, mercanti, perdigiorno. Libagioni ritmate dai suoni dei posteggiatori che, al termine, avrebbero chiesto ai clienti una moneta, un residuo di cibo o una bevuta.
Nel Cinquecento, in una Napoli ricca di vocazione musicale, dove suoni, canti e balli costituivano la principale occasione di svago, nacquero le “villanelle”, composizioni musicali con testo di poesia. Eseguite in lingua napoletana, esse divennero genere musicale di esportazione conquistando fame e fortuna in Italia e in Europa.
Nel 1569, dopo l’approvazione dell’Eletto dal Popolo, gli artisti ambulanti si costituirono in una Corporazione, come avveniva per altre categorie di arti e mestieri. La società di mutuo soccorso aveva sede presso la chiesa di S. Nicola alla Carità e garantiva giusti compensi, assistenza per le malattie e persino una degna sepoltura.
Nel Seicento, Napoli conobbe profonde inquietudini sociali. Il 1647 fu l’anno della rottura di ogni possibile equilibrio tra plebe cittadina e ceti dominanti, arroccati intorno al potere vicereale: i giorni di Masaniello lacerarono con violenza una fragile convivenza civile. Da allora, la cultura popolare fu tenuta al bando, perché ritenuta pericolosa per la stabilità politica. Anche la Chiesa, in piena Controriforma, vedeva con sospetto i girovaghi cantanti. Pericolo di ribellioni sociali e insidia di tenaci legami sotterranei con i culti di derivazione pagana, furono tra i motivi principali della “reazione” pilotata dai Gesuiti contro le espressioni artistiche più autentiche della plebe e del popolo basso.
Per tali motivi, il Seicento dà ai suonatori un rifugio a loro già caro: le taverne. Un elenco elaborato a Napoli alla metà del secolo ne contava 112. Due le taverne più note: quella del Cerriglio e quella del Crispano.
La taverna del Cerriglio si trovava nell’area di Rua Catalana (vicino Via Medina) e fu un punto di luce dell’immaginario popolare, metafora del divertimento, luogo di avventure amorose, di cibi squisiti e di franche libagioni. La taverna del Crispano, invece, sorgeva nel Borgo S.Antonio Abate e confinava con l’area degli “Incarnati”, luogo di raduno di disperati, malavitosi, donne di malaffare.
Evoluzioni della canzone napoletana
Eppure, proprio nel XVII secolo, in una convulsa realtà sociale, tra un’eruzione del Vesuvio e un’epidemia di peste, entrò in incubazione quella che sarebbe diventata un giorno la “canzone napoletana”, nata dall’incrocio dei canti popolari delle campagne con i canti popolareschi di città e le composizioni di autori con forte personalità artistica.
Il secolo dei Lumi è stato anche il secolo dei “tarantellari”, coppie di danzatori di tarantella con tamburi a mano e altre “percussioni”, strumenti a corde o a fiato. Le movenze dei ballerini, di forte carica erotico-sentimentale, davano vita alle figurazioni del corteggiamento maschile e della “tattica” amorosa femminile, con ritrosie, ripulse (le “culàte”) e cedimenti repentini.
Nell’Ottocento la canzone napoletana divenne un fenomeno di massa. Lentamente, dal canto popolare, puro o filtrato dalle trascrizioni dei mediatori che ammorbidivano versi e note, si arrivò alla canzone d’autore. Fu un processo graduale, non isolato dal cammino complessivo della società napoletana dell’epoca, e soprattutto dei suoi strati popolari che, in parte, si affacciavano al confine della piccola borghesia. Un processo ben visto dalle classi dirigenti, favorevoli alla progressiva integrazione del popolo.
D’estate, i musici si spostavano sulle rotonde balneari e eseguivano i loro pezzi sulle piattaforme di legno tenute da pali infissi nel bagnasciuga, magari improvvisando divertentissimi versi inventati all’istante per un dandy o una signorina in costume.
La fine dell’Ottocento faceva aprire una vita nuova per i posteggiatori, con tanti viaggi all’estero per cantare la canzone napoletana entrata ormai nel periodo del suo massimo splendore. Viaggi e guadagni, anche se poi nessun posteggiatore riuscì a diventare veramente ricco. Un fenomeno da spiegare, forse, con l’indole di questa singolare categoria di artisti, per i quali il gusto di suonare e cantare è sempre stato più forte di ogni interesse economico.
Nel Novecento, il corso storico dei posteggiatori fu segnato profondamente da due eventi: l’inaugurazione della Galleria Umberto I (nel 1890) e l’iniziativa della casa musicale tedesca “Polyphon” che, negli anni precedenti al primo conflitto mondiale, scritturò i maggiori poeti e musicisti napoletani, concedendogli uno stipendio fisso ma esigendo un certo numero di canzoni all’anno.
L’inaugurazione della Galleria fu l’occasione per radunare un buon numero di orchestrine, che si fecero ammirare dai corrispondenti dei giornali stranieri: la fama dei posteggiatori si diffuse in tutta Europa e i cantanti napoletani furono richiesti in ogni angolo del continente.
Altro avvenimento decisivo per la vita dei posteggiatori fu l’arrivo della “Polyphon”, un’occasione a doppio taglio. Da un lato, con i contratti agli autori venne incentivata la produzione di canzoni e le postegge ebbero una maggiore quantità di materiale a disposizione. Dall’altro, la “Polyphon” introdusse, sin dal 1912, la novità delle “macchine parlanti“, i grammofoni. Il lento declino della posteggia cominciò proprio da lì. Prima i grammofoni, poi la radio: la diffusione delle canzoni a poco a poco non ebbe più bisogno delle orchestrine all’aperto e i posteggiatori si avviarono verso l’ultima fase della loro parabola.
I Cafè Chantant
Di fronte al progressivo affermarsi delle tecniche di riproduzione della voce, che privilegiavano i cantanti “di teatro”, e davanti al lento declinare dell’epoca d’oro della canzone, la posteggia ripiegò fino a ridursi a pura testimonianza, nei suoi ultimi epigoni. I posteggiatori brillarono fino a quando la canzone restò un fenomeno più artistico che speculativo, poi, sotto l’incalzare dell’industria dello spettacolo, un pò alla volta scomparvero.
Ai posteggiatori va anche il merito di aver favorito la nascita del famoso “Caffè concerto” (o Cafè-chantant) un genere di spettacolo che caratterizzò un’epoca. A cavallo dei due secoli, le aspirazioni diffuse a una più brillante vita sociale, si sposarono con l’intuito di piccoli e medi imprenditori del ramo “caffetteria”. Furono aperte in tutta la città gelaterie, birrerie, spazi con tavolini e pedane per concerto all’aperto. Si servivano tazzine di caffè e bicchieri con granite di limone, prese d’anice e bicchierini di rosolio, a cui si accompagnavano le esibizioni di soubrette, comici, ballerini, musici e “sciantose“. Iniziava la “belle èpoque” napoletana.
Tra i tanti bar spiccavano: il “Salone Margherita” (il primo cafè-chantant d’Italia), “Caffè Vermouth di Torino” a S.Lucia, lo “Scotto Jonno”, il “Caffettuccio”, il “Vasto”, il “Caffè Vigilante”, l’”Eden”, destinato a diventare un famoso teatro-varietà. In Piazza Plebiscito c’erano il “Caffè turco” e il già famoso “Gambrinus” ed ogni sera,quando in piazza passava il tram, il conducente era costretto, a furor di popolo, a bloccare il mezzo pubblico. I passeggeri, affacciati ai finestrini, volevano sentire almeno un “pezzo“.
Alcuni posteggiatori girano ancora per Napoli, anche se il loro numero non è assolutamente paragonabile alla quantità di “professori” di concertino che c’era nelle epoche felici della posteggia. Ed anche il modo di cantare si è allontanato dallo stile caratteristico dei cantatori dell’Ottocento-Novecento.
I temi e i luoghi delle postegge
Sentimenti, gesti, parole, avvenimenti erano tradotti in versi e musica, filtrati dalla sensibilità cittadina dei ceti popolari, capace di cantare le mutevolezze psicologiche di uomini e donne immersi in una realtà di amori tempestosi, feroci rivalità, desideri di affermazione e acute malinconie. In più, trovavano spazio anche canzoni ispirate ad avvenimenti cittadini (sociali o politici) che colpivano la fantasia collettiva.
Ma quali erano le occasioni di canto per i “professori” della posteggia? Le serenate, dedicate a giovani donne amate da giovanotti che cantavano essi stessi sotto i balconi, all’angolo d’un vicolo o in una via di campagna, o si affidavano alla voce di un cantante professionista. Le “mattinate“, portate sotto finestre e balconi per dare il buongiorno in musica all’innamorata che ancora se ne stava sotto le lenzuola. Le feste casalinghe: battesimi, fidanzamenti, matrimoni. Le giornate di Piedigrotta, 7 e 8 settembre, con il lancio delle canzoni nuove. Le postegge sostavano anche davanti ai grandi alberghi di S. Lucia o fra i tavoli delle osterie e trattorie, a Posillipo, al Corso, a Mergellina. Dalle taverne settecentesche di “Mezarecchia“, delle “Carcioffole” o delle “pagliarelle d’ ‘o sciummetiello“, a quella ottocentesca di “Monzù Arena” e alle altre più recenti: i ristoranti Stella, Allegria, Bergantino, ai Due Leoni, ‘a Fenestrella, Pallino, Scoglio di Fristo, le Quattro Stagioni, Pastafina, Pignatiello, ‘o Schiavuttiello, Rosiello, La Rotonda a Posillipo, Birreria Strasburgo, Starita, Sica, e innumerevoli altri, fino ai due più celebri locali del Borgo Marinaro, “La Bersagliera” e “‘a zi Teresa”, fondati dalle leggendarie Emilia Del Tufo e Teresa Fusco.
Un ristorante, una posteggia. Con scambi e andirivieni di suonatori e cantanti.
Gli strumenti musicali dei posteggiatori
Nel Quattrocento e nel Cinquecento gli strumenti musicali più utilizzati erano: il “calascione“, un chitarrone di grosse proporzioni; la “tiorba a taccone“, strumento a corda suonato con un’apposita penna (il taccone); la cetola (cetra). Ma non mancavano strumenti come il liuto, il rebec (un violino primitivo), arpe e mandole.
Il tamburo, detto “tammurro” o “tammorra“, aveva un diametro che andava dai 35 ai 50 cm. Intorno al cerchio, che delimita lo spazio della pelle ben tesa, su cui batte la mano del suonatore, piccole nicchie rettangolari ospitano sonagli di latta, chiamati ” ‘e cicere“, corruzione dialettale del termine “cembali”. Per suonare il tamburo, occorrono preparazione musicale e resistenza fisica, poichè la “tammurriata” dura a lungo, ore intere, e chi percuote lo strumento deve seguire costantemente lo stesso ritmo. Le tammorre sono spesso suonate col “trillo“, cioè col dito pollice inumidito con la saliva e “strisciato” lungo i bordi del cerchio di pelle.
Le “castagnette“, o nacchere, consistono in due pezzi concavi di legno, uniti da una cordicella nella parte superiore. Il danzatore di tarantella fissa la cordicella tra le dita e fa battere i due pezzetti di legno che emettono un suono secco e ritmico.
Il “sisco“, o il fischio (ovvero il flauto nella versione etnica napoletana), è una canna tagliata, su cui vengono praticati dei buchi per la regolazione del suono.
Il doppio flauto, a due canne, una con 4 buchi (la canna maschio), l’altra con 3 (la canna femmina). Il suonatore impugna la canna maschio con la mano destra e la femmina con la mano sinistra, come è possibile vedere già in antichissime pitture di età greco-romana.
La “chitarra battente” ha una cassa più alta della chitarra normale e il fondo non piatto ma incavato. E’ uno strumento destinato a produrre solo suoni alti e infatti non ha corde basse, mentre talvolta possiede doppie corde per aumentare ancora la sonorità delle esecuzioni.
Nel periodo natalizio, inoltre, ancora oggi, è possibile incontrare suonatori di zampogne e ciaramelle, altri antichissimi strumenti popolari, usati per le novene decembrine dai “zampognari“, figure particolari di musicisti girovaghi.
Nell’Ottocento arrivò una svolta anche per l’uso degli strumenti dei posteggiatori: scomparvero tiorbe e calascioni ed invasero la scena chitarre, mandolini e violini. Più tardi, venne la fisarmonica ed altri strumenti popolari di poco prezzo, nati dalle mani di scugnizzi e artigiani improvvisati: putipù, triccaballacche e scetavajasse.
Ma per molti lo strumento principale era la voce, sempre modulata e ricca di sfumature, Uno modo, uno stilo che, per i posteggiatori, si sarebbe mantenuto sempre inalterato nel corso dei secoli.
I posteggiatori più popolari
Giovannella Sancia, chiamata la “Sirena di Napoli” per la sua voce melodiosa. Popolarissima al volgare del XVI secolo, fece poi un voto religioso: non avrebbe più cantato arie profane ma solo composizioni a sfondo mistico.
Gian Leonardo (“Giallonardo dell’arpa”) si chiamava in realtà Giovanni Leonardo Primavera e il soprannome gli venne attribuito per l’uso virtuosistico dell’arpa, con cui si accompagnava nel canto. Infatti, nel Cinquecento, era già consolidata l’abitudine di dare ai cantori e ai musici soprannomi che li rendessero immediatamente riconoscibili dal popolo.
Compare Junno, cioè biondo, era cieco. Univa la sua arte a quella dei cantatori e musicanti che andavano in giro per Rua Catalana, Rua Francesca, le vie del Porto, i Decumani.
Sbruffapappa, cantore molto amato e popolare, che portava nel soprannome il segno della sua vocazione a giocare, e vincere, la quotidiana partita con il cibo.
Mastro Roggiero, che alternava le esibizioni in taverne a quelle nelle case patrizie. Col suo gruppo musicale, accompagnava tutti i balli in voga ed eseguiva tutti i generi di canto: villanelle, canzoni a ballo, madrigali, strambotti, serenate.
Don Antonio ò cecato suonò e cantò tutte le canzoni dell’Ottocento, quasi un’antologia del pentagramma plebeo. Intorno a lui c’era sempre un concertino con chitarre, un trombone e un ottavino. Uno dei suonatori rimorchiava don Antonio per le strade, grazie a una cordicella attaccata da un capo all’asola del suo panciotto e dall’altro attorno alla sua vita.
Gennaro Pasquariello fu uno degli artisti che incontrò più consensi. Il “Caffè Allocca”, in via Foria, gli offrì la possibilità del debutto come cantante: si aprì allora, per Pasquariello e per la canzone, una strada luminosa. Interprete, più che cantante, Pasquariello rendeva con la voca tutte le sfaccettature di un animo triste o felice, il pathòs di un amore negato o l’esaltazione di un bene raggiunto. Il pubblico lo seguiva partecipe, il suo “filo di voce” era una dolce calamita di pensieri e sensazioni, il segno artistico dell’appartenenza a un comune sentire, un suono nei suoni, ricco di antichi richiami e impreviste “vutate“. Nel 1947 Pasquariello conobbe una dura stagione di tramonto: i soldi messi da parte in tanti anni di carriera andarono in fumo all’improvviso, per l’inflazione post-bellica.
Vincenzo Bellavita ebbe un’esistenza da romanzo: emigrato in America per fare il garzone in una fabbrica di scarpe, presto fu sopraffatto dalla nostalgia. Lacrime e disperazione lo vinsero definitivamente quando una sera decise di sedersi in una pizzeria: la tonda focaccia striata di rosso pomodoro fu per lui molto di più di uno straziante ricordo. Al secondo boccone, la decisione fu presa: tornare a Napoli. Nella sua città, Bellavita si abbandonò al destino della posteggia, cantando appassionatamente in alberghi, ristoranti, caffè.
Pietro Della Rosa fu famoso per aver lavorato per Frisio, cioè lo “Scoglio di Frisio”, notissimo ristorante dell’epoca, situato a Posillipo e frequentato da aristocratici ed intellettuali, come D’Annunzio e Carducci.
Allo “Scoglio di Frisio” cantò per lungo tempo Giuseppe Di Francesco, detto “O’ Zingariello”, il più apprezzato cantante da posteggia di fine Ottocento grazie a grandi brani come “Era de Maggio“, “‘I te vurria vasà“, “Te sì scurdato ‘e Napule“, “Sora mia“. La sua voce possedeva un quid misterioso, un particolare magnetismo e, nei ricordi di chi lo ascoltò, quella voce viene descritta come morbida e penetrante. Una voce con lo “striscio”, cioè un’incrinatura che rendeva struggente il canto.
Attilio Margheron era soprannominato “Aglietiello” (aglietto) e aveva una voce da tenore.
Mimì “‘o turchiciello” (il moretto) era noto perchè oltre alla chitarra sapeva suonare il banjo.
Guglielmo Muoio, detto “Guglielmo ‘e mare“, saliva in barca con un piccolo gruppo di compagni e, a forza di remi, se ne andava sotto i transatlantici fermi nelle acque del porto di Napoli. Ai passeggeri, affacciati ai parapetti della nave, la posteggia in barchetta offriva un campionario di famose canzoni. Le monete lanciate dall’alto finivano in un ombrello aperto e rovesciato. Un posteggiatore lo faceva oscillare, a seconda della traiettoria dei soldini, che spesso finivano in acqua. Guglielmo ‘e mare morì sotto le bombe, a S.Lucia, durante il secondo conflitto mondiale.
Gaetano Scherzi, detto “‘o gravunaro” (il carbonaio) per via del suo lavoro esercitato prima di diventare posteggiatore: lavorava in una bottega in cui si vendeva carbone per i fornelli di cucina e per le stufe.
Luigi Calienno “‘o tenorino” e “il Caruso dei posteggiatori“, famoso anche per le sue scene di fanatismo a Londra: ai tempi del cinema muto, cantò nelle sale cinematografiche durante la proiezione dei film.
Gigino Esposito, tipografo, fu vinto dalla passione per l’arte. Colpito da un infarto, riuscì a superare la crisi che lo aveva colto nel pieno di una brillante carriera da posteggiatore. Per dare ai familiari la prova della ritrovata capacità canora, intonò a pieni polmoni una romanza del “Rigoletto“. All’acuto finale, cadde fulminato da un altro infarto.
L’estrazione popolare dei posteggiatori era testimoniata dai loro soprannomi, come già notato: “Don Gennariello ‘o ferraro” detto anche “purpetiello” (piccolo polpo), Giovanni D’Andrea detto “Capitone“, Vincenzo Righelli detto “Coppola rossa“, Ciccillo “”‘o guaglione“, Salvatore Bruno “cosce longhe“, Francesco Coviello detto “Ciccio ‘o Conte“, Pietro Mazzone “‘o rumano“, Pasquale Jovino detto “‘o piattaro“, Vincenzo Presutto “capa ‘e lava“, Pasquale Contessa “‘o cappellaro“, Gaetano Buracchia “‘o busciardo“, Raffaele De Felice detto “Ucchiezzullo” (occhio piccolo”, Salvatore Forgione “‘o cusetore” (il sarto), Salvatore Lacovara detto “Totore La Quale“, Raffaele Centesimo “‘on filoscio“, Mariano Nevo “‘o surdo“, Walter Fugazza “‘o figlio d’a Signora“, Rodolfo Racz detto “muollo-muollo” (lento lento).
Tutti successori dei capostipiti cantatori ricordati solo per il soprannome, come il “Re dell’aucielle“, re degli uccelli, misterioso posteggiatore del Cinquecento, o “Pascariello“, amatissimo dalla plebe a metà Ottocento.
Le postegge più celebri
Cantata da generazioni di posteggiatori, “Michelammà” racconta la storia di una fanciulla che, paragonata ad una “scaròla”, venne rapita dai turchi che se la contendevano chi per la “cimma” e chi per lo “streppone”.
E’ una canzone avvolta nel mistero. La sua paternità è stata data a Salvator Rosa, ma non se n’è mai avuta la certezza documentata. Inoltre, cosa vuol dire “Michelammà”? Forse “Michela è mia” o “Michela e il mare”? O siamo di fronte ad un “mottozzo”, un suono vocale ripetuto per dare consistenza alla rima?
Interpretazione di Roberto Murolo: https://www.youtube.com/watch?v=unz_g1i_qxI
“Lu guarracino”
Canzone dall’autore anonimo, Lo Guarracino è il nome di un piccolo e sgraziato pesce del golfo di Napoli in cerca di moglie. Ai suoi primi tentativi di sposare la Sardella (una piccola sarda), seguono catastrofici inganni ed equivoci fatali, culminanti in una zuffa gigantesca sul fondo del mare, che coinvolgerà tutti i pesci del golfo, nelle loro multiformi varietà di specie e grandezza.
Interpretazione di Cigliano Fausto: https://www.youtube.com/watch?v=uAkzJSoGJso
“Te voglio bene assaje“ (1835)
Nel settembre 1835 molti posteggiatori cantarono una canzone nuova, volata di quartiere in quartiere dopo un’esecuzione “a balcone aperto” in casa dell’autore dei versi, don Raffaele Sacco, ottico con casa e bottega in via della Quercia. Al pianoforte lo stesso Sacco: dal balcone spalancato, note e parole di “Te voglio bene assaje” presero il largo nella notte tiepida. Sotto il balcone, una piccola folla di nottambuli intonarono, dopo le prime strofe ascoltata in estasi, quel motivo facile e orecchiabile. Alla fine, don Raffaele si affacciò commosso a ringraziare. Era il momento fatale: nasceva l‘epoca della vera canzone d’autore, suonata nei salotti, cantata nelle strade, diffusa con le “copielle” (180.000) e dai posteggiatori.
Interpretazione di Sergio Bruni: https://www.youtube.com/watch?v=iCCPhG74jnw
“Funiculì-funiculà“ (1880)
Venne scritta nel 1880 dal giornalista Peppino Turco e dal maestro Luigi Denza per celebrare l’avvio della funicolare del Vesuvio. Nello stesso anno, venne presentata alla festa di Piedigrotta per descrivere i vantaggi offerti dal nuovo mezzo di trasporto.
Interpretazione di Sergio Bruni: https://www.youtube.com/watch?v=xYRjsLs6b8E
“Torna a Surriento” (1902)
Questa canzone troverebbe spunto dall’ idea, nel 1902, del sindaco di Sorrento, Guglielmo Tramontano, di rendere omaggio al primo ministro Giuseppe Zanardelli in visita alla Costiera Sorrentina. Autori della canzone furono i fratelli De Curtis, ai quali Tramontano chiese di comporre un brano non per dedicarla al premier, ma piuttosto per cercare di ingraziarselo per ottenere opere pubbliche di cui la città di Sorrento necessitava.
Interpretazione di Enrico Caruso: https://www.youtube.com/watch?v=Sm42AWUGkjc
“Scètate” (1888)
Autori della canzone furono Ferdinando Russo e Maria Costa. La prima esecuzione del brano avvenne una sera d’ottobre del 1888, sotto i balconi del palazzo Reale, in onore del Kaiser Guglielmo II. La serenata dell’imperatore fu intonata da cinquecento coristi, accompagnati da cento mandolinisti.
Interpretazione di Roberto Murolo: https://www.youtube.com/watch?v=xxDk2i4bf0A
“Marechiare” (1885)
Salvatore Di Giacomo, autore della canzone, affermò di aver composto la poesia (poi diventata canzone) non conoscendo il luogo che stava andando a descrivere. Marechiaro, famosa per essere una delle più famose insenature del golfo di Napoli, sarebbe stata raggiunta da Di Giacomo solo molti anni dopo aver scritto la lirica per accompagnarvi una studentessa inglese. Carolina, la protagonista della composizione, e la finestra sarebbero frutto dell’immaginazione dell’autore.
Interpretazione di Roberto Murolo: https://www.youtube.com/watch?v=PAb3HSIKatI
” ‘O sole mio“ (1898)
La canzone venne scritta nel 1898 da Giovanni Capurro, giornalista del “Roma” di Napoli, e musicata da Eduardo Di Capua, che all’epoca si trovava in Ucraina, ad Odessa. Sembrerebbe che la musica si sia ispirata ad un’alba sul Mar Nero e ad Anna Maria Vignati-Mazza, vincitrice del primo concorso di bellezza della città di Napoli. Il brano venne poi presentato a Napoli alla Festa di Piedigrotta al concorso musicale de “La tavola rotonda: Giornale, letterario, illustrato, musicale della domenica” .
Diventato anche patrimonio dell’Unesco, il brano è diventato uno dei più cantati e conosciuti al mondo.
Interpretazione di Enrico Caruso: https://www.youtube.com/watch?v=u1QJwHWvgP8
” ‘I te vurria vasà“ (1900)
La canzone descrive una storia d’amore infelice tra Vincenzo Russo, autore della canzone, ed Enrichetta Marchese, I due amanti erano però separati da un profondo abisso sociale: lui proveniva da una famiglia poverissima, lei da una ricca famiglia di gioiellieri che mal voleva la relazione con il giovane amante per via della sua estrazione sociale.
Interpretazione di Sergio Bruni: https://www.youtube.com/watch?v=FH7QI_azgz4
“Reginella” (1917)
Una delle più famose canzoni napoletane di tutti i tempi, venne scritta nel 1917 da Liberio Bovio e musicata da Gaetano Lama.
La canzone narra dell’incontro al Salone Margherita tra lo stesso Bovio e la sciantosa Reginella, una donna con cui ha avuto una breve ma intensa storia di amore. Ancora profondamente innamorato, l’uomo racconta con intensità, passione e malinconia la loro relazione sperando che il dolce ricordo della loro storia abbia sfiorato “distrattamente” la mente della donna.
Interpretazione di Massimo Ranieri: https://www.youtube.com/watch?v=BNHJ9SPc-Js
-Marco Godino
Fonti: M. LIGUORO, I posteggiatori napoletani, Tascabili Newton, 1995
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