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Spesso capita di sentir parlare della politica con i soliti stereotipi di corruzione, clientelismo e criminalità. Dimentichiamo così la storia di tanti uomini onesti come Antonio Winspeare, che è un esempio perfetto di quante brave persone siano passate a Palazzo San Giacomo.
Il problema di Winspeare è che unì l’onestà con un caratteraccio, finendo con il fare la guerra a tutti.

Diventò famoso ad esempio perché vietò ai dipendenti pubblici la “pausa fumo” durante il lavoro proprio perché odiava i fannulloni al Comune, che spesso passavano giornate intere senza lavorare.

Partiamo anche da un concetto: se Palazzo San Giacomo ancora oggi è sede del Comune, lo dobbiamo proprio a lui, che strinse un accordo con il demanio statale nei soli 6 mesi in cui fu a capo del Comune di Napoli.

Il suo nome crea spesso confusione con un altro Antonio Winspeare, suo cugino e per giunta suo coetaneo, che diventò famoso per essere stato il prefetto durante i moti di Milano del 1898 finiti con il bombardamento di Bava Beccaris ed una strage di cittadini.

Antonio Winspeare sindaco di Napoli
Antonio Winspeare, duca di Salve, quando fu sindaco di Napoli

Un self made man

La storia della famiglia Winspeare è molto antica e comincia nell’isola di Man, quando nemmeno il territorio apparteneva all’Inghilterra.
Insomma, davanti ai nobili scatta spesso il sorrisetto maligno che accompagna i raccomandati e i figli d’arte. Antonio Winspeare fu un uomo che non dovette dire grazie a nessuno. Nacque nel 1822 e, dopo aver perso la mamma quand’era bambino, fu cresciuto amorevolmente dal padre e dalle tre sorelle maggiori.

Ruppe i rapporti con la famiglia dopo la rivoluzione del 1848: come molti giovani intellettuali, anche Winspeare fu fra le barricate dei liberali e volle ribellarsi al padre, che invece era fedelissimo borbonico. In realtà non odiava Ferdinando II di Borbone come i tanti intellettuali che furono esiliati dal Regno delle Due Sicilie, anzi, apprezzava il suo modo di aver compreso perfettamente l’animo napoletano e di saperlo accontentare nel modo che più piaceva al popolo, ma era in disaccordo con il suo modo di governare, che riteneva eccessivamente prudente e incapace di affrontare la competizione economica imposta dalle potenze europee. D’altronde, lo stesso Ferdinando un giorno parlò della sua dinastia in termini non diversi: “noi siamo uomini d’altri tempi, non apparteniamo a questo secolo“.

Dopo la rivoluzione non fu condannato e non finì in carcere. Ma Antonio Winspeare era troppo orgoglioso e non parlò mai più con il padre e con le sorelle.

Rivoluzione 1848 Via Toledo barricate
Le barricate del 1848 a Via Toledo

Un dirigente pubblico incorruttibile

Dopo l’Unità d’Italia ritroviamo Winspeare praticamente ovunque nelle pubbliche amministrazioni di mezza Italia.
Il suo carattere molto serio, rigido e onesto fino alla pignoleria, infatti, lo resero subito un soggetto ambito da tutti. Immediatamente dopo, però, i suoi difensori si pentivano amaramente: Winspeare non accettava nessun compromesso e tantomeno alcuna illegalità e spesso metteva in imbarazzo i suoi stessi promotori.

Già Garibaldi, nel breve periodo della dittatura a Napoli, lo nominò eletto del quartiere San Carlo all’Arena. Durò pochissimo il mandato, in quanto si trovò a litigare con l’intera amministrazione comunale e, successivamente, con i piemontesi che imposero le dimissioni di tutti gli amministratori garibaldini.

Molto italianamente, però, gli addii nelle pubbliche amministrazioni non sono mai stati definitivi oggi come allora.

Anche Winspeare fu richiamato poco dopo, stavolta a Torino, per gestire il dipartimento di Agricoltura, Industria e Commercio: da buon tecnico e conoscitore dei problemi del Sud Italia, fu scelto da Cavour con la speranza di poter creare nuovi regolamenti per tutto il territorio nazionale. Fu una guerra.

Villa Salve Antonio Winspeare
Antonio Winspeare abitava a Villa Salve, ancora oggi è conservata in ottime condizioni e si trova al Corso Europa, sulla collina del Vomero

Il caratteraccio di Antonio Winspeare

Winspeare fu capace di litigare con tutti i politici con cui ebbe a che fare: Liborio Romano, Nicola Nisco, Silvio Spaventa, Luigi Settembrini sono solo un minuscolo elenco. Li chiamò “corrotti”, “incompetenti”, “confusi”, “imbecilli” e “inetti”: era infatti scandalizzato dal fatto che i ministri e i dirigenti nel neonato Stato Italiano venissero scelti con nomine politiche e non in base alla competenza.

Per un carattere perfezionista e cinico come il suo, fu un vero colpo al cuore.

Quello con cui litigò di più, però, fu Francesco Del Giudice, da non confondere con il capo dei Pompieri: dopo l’Unità d’Italia cominciarono numerose manovre economiche della Banca Nazionale del Regno di Sardegna, guidata dal ministro Quintino Sella, per mettere le mani sul patrimonio del Banco di Napoli in ottica più speculativa che di unità monetaria. Winspeare, in qualità di responsabile di Industria e Commercio, fece una guerra senza quartiere per sollecitare una regolamentazione delle banche nazionali e tutelare l’iniziativa economica del Sud Italia.

Alla fine, esasperato dai continui reclami del suo dirigente contro le altre istituzioni dello Stato, il ministro Filippo Cordova lo mandò a dirigere la Zecca di Napoli.

E qui scoppiò una nuova lite, quando si richiese il conio delle nuove monete con l’effigie di Vittorio Emanuele II: mancava l’argento a Napoli. Così, con il pragmatismo che lo caratterizzava, Antonio Winspeare andò a parlare con i Rothschild, che a Napoli avevano numerose proprietà ed erano sempre attenti agli affari. Strappò un accordo segreto molto conveniente, che mostrò con soddisfazione al ministro: sottolineò più volte la necessità di non divulgare i contenuti dell’accordo, altrimenti inevitabilmente ci sarebbero state speculazioni e il prezzo dell’argento sarebbe salito a dismisura.

Davanti ai suoi occhi, pochi minuti dopo, il ministro accolse alcuni deputati venuti in visita e si vantò dicendo ad alta voce tutte le cifre dell’accordo con i Rothschild, per giunta prendendosi i meriti al posto di Winspeare.

Il napoletano andò su tutte le furie, il prezzo dell’argento salì a causa di questa ingenuità e i Rothschild si ritirarono dall’accordo indignati, ritenendo poco serio il governo. Anche Winspeare lasciò l’incarico in preda al disgusto, “stupefatto per tanta imbecillità“, non prima di aver inviato una circolare a Milano per denunciare ai vertici della Banca Nazionale la sciocchezza del ministro.

Adolph Von Rothschild Napoli
Adolph Von Rothschild, il banchiere che curava gli interessi della potentissima famiglia a Napoli

Lo sputo e l’esilio da Napoli

Alla fine la politica che Winspeare tanto odiava, lo ingabbiò.

Stimato sempre per la sua onestà e per il suo rigore, fu mandato a risanare una delle strutture più compromesse di Napoli: l’Albergo dei Poveri era infatti in piena crisi economica e notoriamente casa di dipendenti fannulloni.

Accettò l’incarico gratuitamente, ma subì un’aggressione mediatica dai giornali socialisti, che criticavano il suo rigore eccessivo e l’aver respinto una commissione d’inchiesta sul suo operato. Ricevette un massacro mediatico tanto feroce che fu costretto a lasciare l’incarico, ritirandosi in casa in preda a un profondo sconforto.

Si scoprì successivamente che gli attacchi erano coordinati dal duca di Sandonato, che mirava a diventare sindaco di Napoli e voleva demolire l’avversario politico.

Winspeare racconta che lo incontrò nel giorno in cui uscì per la prima volta di casa dopo 14 giorni di isolamento, mentre passeggiava per Via Santa Brigida.

Non ci vide più dalla rabbia per l’infamità subita: l’inglese gli sputò in faccia, scatenando una reazione di scandalo in tutta la città. Dovette così lasciare Napoli per diversi anni, andando in giro prima come prefetto di Lecce, poi a Massa e Carrara.

Infine, testardo come sempre, nel 1875 tornò a Napoli per farsi eleggere prima consigliere comunale e poi Sindaco, rovinando le ambizioni del duca di Sandonato.

Duca di San Donato
Il duca di San Donato diventò sindaco di Napoli proprio dopo Winspeare

Sei mesi di fuoco a Palazzo San Giacomo

L’esperienza da politico di Antonio Winspeare, considerato il caratteraccio, non poteva essere molto lunga. E infatti durò solo sei mesi.

Durante la sua permanenza a Palazzo San Giacomo si adoperò per delle innovazioni importanti: innanzitutto riuscì a strappare al Demanio di Stato quasi tutto il Palazzo del Comune, con l’eccezione del lato di Via Toledo (che infatti fu abbattuto 50 anni dopo per creare la sede del Banco di Napoli). Poi riuscì a far acquistare al Comune ben 29 conventi abbandonati, da Sant’Agostino alla Zecca a Santa Maria della Libera al Vomero.

Proprio i giornali e la politica vicini alla sinistra storica e agli ambienti socialisti gli fecero terra bruciata, dato che non avevano dimenticato i fatti dell’Albergo dei Poveri. Nonostante la dichiarata antipatia della sinistra nei suoi confronti (ampiamente ricambiata), lui si definiva “un tecnico” e non volle mai inquadrarsi in un partito.

E infine scoperchiò un vero e proprio vaso di Pandora: disse per la prima volta, in pubblico, i motivi per cui il Comune di Napoli aveva un bilancio che registrava un debito spaventoso. Ed erano passati appena 15 anni dall’Unità e Napoli aveva già 78 milioni di lire di debiti in bilancio certi e molti altri mai annotati. Considerando l’inflazione, sono equivalenti a 338 milioni di euro attuali.

La ragione? I bilanci di previsione erano puntualmente truccati e si inserivano spesso tasse e crediti che non sarebbero mai stati riscossi. Allo stesso modo, le spese straordinarie non erano mai rendicontate in modo corretto dai funzionari del Comune. E alla fine si arrivava a fine anno senza nemmeno sapere di preciso quanti debiti erano stati accumulati.

Questa denuncia del Sindaco nel suo discorso di insediamento fu il preludio di ciò che accadde 25 anni dopo con l’Inchiesta Saredo.

Il Pungolo
Il Pungolo era uno dei giornali vicini al mondo socialista. Le sue inchieste furono fondamentali per scoperchiare numerose magagne politiche in Italia, ma i suoi attacchi erano ferocissimi e violenti. Su tutti, potremmo raccontare la campagna diffamatoria che portò al controverso suicidio dell’onorevole Pietro Rosano.

Il sindaco contro tutti

Molti provvedimenti di Antonio Winspeare, compresi quelli che avrebbero dovuto ottenere l’approvazione delle sinistre, naufragarono nei consigli comunali fermati dal puro ostruzionismo politico: su tutti la proposta di adottare una “legislazione inglese” sul fitto delle case a Napoli: il sindaco voleva infatti rendere inabitabili tutti gli immobili che non disponevano di finestre e dei servizi igienici essenziali, destinando l’attuale Zona Industriale come nuova area per la costruzione di case popolari con criteri moderni e date in concessione ai nullatenenti. In questo modo sarebbero diventati inabitabili tutti i fondaci del centro storico, frequentati da cittadini che vivevano in condizioni inumane.

Probabilmente, se il provvedimento di Winspeare fosse stato approvato, non ci sarebbe stato lo sventramento del Centro Storico durante il Risanamento.

Con i se e con i ma, però, la storia non si fa. E la storia di Winspeare finì come tante cronache moderne del Comune di Napoli: bloccata dalle beghe politiche. Il 18 aprile 1876 il Comune di Napoli fu commissariato perché il Sindaco perse la maggioranza.

Non a caso, il suo successore fu proprio Gennaro Sambiase di Sanseverino, duca di San Donato e destinatario anni prima del famoso sputo di Winspeare.

Testardo e patriota

Antonio Winspeare all’epoca della destituzione aveva 55 anni e sperava di poter continuare la sua carriera in Senato, dato che gli era stato promesso un seggio dal ministro dell’Interno.

Anche questa fu una promessa da marinaio: attese per vent’anni la nomina, ma nessuno voleva a Roma un elemento così rissoso e scomodo. Alla fine, scrisse una lettera a Giolitti nel 1907, alla veneranda età di 80 anni, senza mandarle a dire:

“Sono perfettamente tranquillo, anzi contento, se per intrigo di mediocrità senatoriali io non seggo in mezzo a loro”

Alla fine scoraggiato, arrabbiato con il mondo e deluso dalla politica con cui continuò a scontrarsi fino alla fine della sua vita, si ritirò fino alla fine dei suoi giorni a Villa Salve al Corso Europa, sul “Vomero Solitario“.

D’altronde, era il suo unico possedimento: tutta l’eredità di famiglia l’aveva persa proprio perché non voleva avere più niente a che fare con i suoi parenti, rimasti borbonici anche dopo l’Unità.

Morì nel dicembre 1918 lasciando un messaggio: “Vittoria, vittoria, vittoria. Ora posso morire. Sono felice, il mio ideale si è compiuto“. L’Italia era uscita vincitrice dalla Grande Guerra e, simbolicamente, si era conclusa anche l’Unità con l’annessione del resto del Nord Italia.

Testardo e patriota fino alla fine dei suoi giorni.

-Federico Quagliuolo

Riferimenti:
Francesco D’Ascoli, Michele D’Avino, I sindaci di Napoli, Mida Editore, Napoli, 1974

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