Salvatore Di Giacomo, poeta e drammaturgo napoletano, ha lasciato alla sua amata città non solo splendidi versi, ma anche delicate pennellate. Molto vicino ai pittori, Salvatore di Giacomo ci mostra con ineffabile delicatezza come, scrivendo di Napoli, si dipinge e, dipingendo, si scrive.
Salvatore Di Giacomo: un poeta nel labirinto napoletano
Lo spazio in cui si muove con occhio attento e incantato Salvatore Di Giacomo (Napoli, 12 marzo 1860- 5 aprile 1934) è quello tipico della Napoli Ottocentesca, non diversa da quella che con crudo realismo descrive Matilde Serao con il suo “Ventre di Napoli”: la Napoli del vicolo, della stanzetta, dello spazio chiuso. Una città labirintica, costellata da strette svolte, angoli, bassi, archivi, sotterranei e chiostri, quella Napoli in cui finanche il mare, sua essenza vitale, è lontano, come direbbe Anna Maria Ortese in “Il mare non bagna Napoli”.
Uno spazio che ha ispirato e ha affascinato tutti gli intellettuali della città, quasi appositamente buio, che aspettava di essere illuminato dall’animo di più autori e personaggi. Tra questi non passa inosservato proprio Salvatore Di giacomo che, con i suoi versi e le sue opere, fa di quello spazio l’occasione per mostrare come, volendo, una penna può diventare un pennello e una pagina una tela.
Con Salvatore Di Giacomo si può parlare senza dubbio di “claustrofilia”, un amore, un crogiolarsi nella descrizione degli spazi chiusi napoletani, soprattutto protagonisti di casi di “claustrofobia” in ambito letterario (per rendersene conto basta leggere “Ginevra o l’orfana della Annunziata” di Antonio Ranieri)
Salvatore Di Giacomo, dalla pagina alla tela
Salvatore Di Giacomo doveva certamente aver ammirato i delicati dipinti impressionisti, perché è questo che riporta sulla pagina: il vago, lo sfumato, un’ atmosfera che si perde delicatamente nello spazio e nel tempo.
Di Giacomo fa con le parole ciò che i pittori facevano con le dita e il pennello: di seguito un passo significativo dalla novella “Rosa Bellavita”:
“Soltanto un sommesso chiacchierìo passava tra le stecche d’una persiana, di rimpetto al finestrone del ballatoio; un parlottio di femmine in confidenze[…]
Era, nell’ora meridiana, così grave il silenzio che ogni più piccolo romore suonava a doppio; salivano le voci per la tranquillità della scala distintamente, saliva persino un mormorio di persone raccolte al primo piano, a ciarlare. Come, tra il pianto e il sonno, la Bellavita dava orecchio alle vicende della scala, le parve a un tratto di riconoscere le voci .
Il sole affacciandosi dentro, pel finestrone, metteva sul ballatoio un gran dado giallo, nel quale era mollemente steso il gatto dei Gambarella, con gli occhi chiusi, come morto. Comparendo la Bellavita il gatto si rizzò lento, senza paura, e se ne andò, soffermandosi a mezzo la scala per guardarla, con una queta attenzione di bestia curiosa[…]”
Leggendo questa breve ma splendida descrizione non possiamo non notare come la nostra immaginazione, sullo slancio delle parole di Salvatore Di Giacomo, abbia realizzato un vero e proprio dipinto impressionista. Niente è definito, tutto è vago, sfumato, delicato e quindi infinito, paradossalmente, nel tipico spazio stretto napoletano.
Il sole, la luce con Di Giacomo assume una consistenza quasi liquida, fluida, scorre sulle cose, le bagna. Tutto ciò con l’assenza dei colori, ma solo con parole che siano poco puntali e tecniche (Di Giacomo utilizza, ad esempio il più vago “parlottio” invece di “parlottare”, “chiacchierio” e non il più puntuale “chiacchierare”).
È questa la scrittura del vago di Salvatore di Giacomo, in una Napoli dove è possibile dipingere con le parole, abbagliata da sole, resa vaga e, quindi, delicatamente bella.
-Francesco Lomasto
Bibliografia:
Professor Nunzio Ruggiero, Una capitale del XIX secolo, la cultura letteraria a Napoli tra Europa e Nuova Italia ( Guida, 2020)
Leave a Reply