Il 1 maggio 1899 fu fondata a Napoli la testata “La Propaganda”, che con le sue inchieste sulla collusione fra la Camorra e il Comune di Napoli, creò un vero e proprio terremoto nella politica napoletana, portando a condanne e arresti di Sindaco, giunta comunale e affiliati.
Era infatti l’organo di comunicazione del giovanissimo partito socialista napoletano, guidato da due politici che rimarranno nella Storia: Arturo Labriola e Arnaldo Lucci, che oggi hanno intitolate strade e scuole.
La criminalità organizzata diventa una battaglia politica
La missione della rivista “La Propaganda” era “morale contro la camorra, politica contro la reazione ed economica a favore del proletariato“. La redazione era composta quasi esclusivamente da giovani, tutti poco più che ventenni, mossi dalla voglia di rivoluzionare la politica e abbattere l’antico sistema di potere cittadino.
D’altronde, ci troviamo sul finire del XIX secolo, quando per la prima volta l’opinione pubblica italiana cominciò a preoccuparsi di criminalità organizzata: pochi anni prima della fondazione della testata, infatti, si verificò l’omicidio Notarbartolo, che fu il primo delitto famoso di Mafia realizzato esattamente 100 anni prima della Strage di Capaci.
Oltre allo shock creato dalla notizia che fu ripresa sui quotidiani di tutta Italia, anche il processo fu un vero dramma giuridico: dieci anni dopo la cattura dei malavitosi, fra ricorsi ed inquinamenti delle prove, tutti furono scarcerati per insufficienza di prove.
Mentre in tutta Italia cominciavano le rivolte operaie e le manifestazioni affogate nel sangue, nel Sud Italia il Partito Socialista si mosse su un piano diverso: i suoi esponenti si esposero in prima persona per denunciare senza censure l’inefficienza e la corruzione della pubblica amministrazione, che a Napoli era un tutt’uno con la Camorra.
Non fu risparmiato nessuno, anche se gli attacchi si concentrarono principalmente sul deputato Aniello Alberto Casale e sul sindaco Celestino Summonte, oltre che sul Mattino, accusato di essere un mezzo di propaganda corrotto e funzionale al regime di potere corrotto. Sidney Sonnino, che di certo non era di sinistra, definì questa triade di potere “l’Alta Camorra“.
La rivista, inizialmente pubblicata come settimanale, ebbe così successo che diventò un quotidiano ed inaugurò una rubrica dedicata esclusivamente alla Camorra curata dal giornalista Walter Mocchi.
Il caso del suicidio di Pietro Rosano
Nel suo ventennio di Storia, la Propaganda si distinse come un giornale ferocissimo nei suoi attacchi e non mancarono gli episodi a dir poco estremi, come il caso del suicidio dell’onorevole Pietro Rosano sei giorni dopo la nomina a Ministro delle Finanze dopo le aggressioni della stampa locale che cominciarono proprio dopo un’inchiesta del giornale socialista su una tangente da lui percepita nel 1894. L’avvocato napoletano era una persona psicologicamente fragile e, dopo aver lasciato un biglietto in cui proclamava la sua innocenza, si sparò un colpo al cuore. Aveva tentato il suicidio già un’altra volta, nel 1870, dopo la morte del padre e il rifiuto della famiglia della sua fidanzata a concedergli il matrimonio.
Il Comune di Napoli commissariato
L’atteggiamento audace dei redattori della Propaganda destarono numerosi consensi in tutto il Sud Italia e, nonostante le numerose perquisizioni, sequestri e censure, molte inchieste terminarono con processi e condanne nei confronti di amministratori e personaggi vicini alla Camorra.
Cominciò quindi una inchiesta giornalistica sul deputato Alberto Casale per provare a scoprire quali potessero essere le fonti di guadagno di una persona ufficialmente nullatenente, ma la reazione del politico fu immediata: arrivò una denuncia per diffamazione che portò tutti i vertici del giornale socialista in tribunale.
Il processo però portò ad un esito clamoroso, grazie al PM Raffaele De Notaristefani che, allo stato dei fatti e delle prove raccolte, riuscì a ribaltare il processo, provando tutti i carichi addebitati a Casale, fra cui la corresponsione di tangenti da parte della Società belga dei Tramways e della società di navigazione Manzi al fine di truccare gli appalti pubblici. Il giornale La Propaganda ne uscì immacolato, anzi, le sue inchieste furono fondamentali per provare la corruzione dell’amministrazione cittadina.
La sentenza creò un terremoto politico che costrinse Casale alle dimissioni da deputato e Summonte a sciogliere la giunta comunale. Non esisteva infatti ancora la disciplina dello scioglimento dei consigli comunali per infiltrazioni mafiose (che sarebbe arrivata solo nel 1991!), ma in questo caso bastò l’arresto di Casale per far cadere l’intero Comune di Napoli, portando alle dimissioni di tutti gli assessori.
Fra bella vita e ipocrisie
Giacomo De Martino, il primo parlamentare che invocò vent’anni prima una commissione d’inchiesta su Napoli, disse che “Quando io portai la questione in Parlamento imperava in Napoli una triade: Casale, Summonte, Scarfoglio, la cui responsabilità non può essere scissa. Io ritengo che essi abbiano retto o si siano altrimenti intromessi nelle cose pubbliche di Napoli con scopi personali e con fini illeciti”.
La morale pubblica di Napoli era divisa letteralmente in due: la città era divisa fra la bella vita borghese, fatta di café chantant, i primi cinematografi e le passeggiate sul lungomare, e una cancrena politica fatta di gruppi di potere che monopolizzavano qualsiasi aspetto della città.
La mala amministrazione napoletana degli ultimi quarant’anni aveva creato una immensa bolla purulenta ormai prossima all’esplosione: gli impiegati nel solo Comune di Napoli erano più di 4000, quasi tutti assunti con dubbie lettere di raccomandazione, i lavori del Risanamento procedevano a rilento e malamente da quasi trent’anni e sempre più frequenti ed eclatanti erano i casi di compravendita di voti alle urne.
La camorra infatti non era più una deviazione sociale, ma un vero e proprio potere politico che faceva comodo un po’ a tutti: dopo essere nata come organizzazione criminale, fu proprio la politica locale a trasformarla nello strumento di controllo dell’intero territorio napoletano.
Il camorrista napoletano, nel frattempo, fu ben felice di frequentare l’alta società. Anzi, ostentare vestiti di classe, accessori costosi e ricchezza inaudita diventò un vero e proprio stile di vita del criminale di successo, così come diventarono famosi e conosciuti i locali di ritrovo dei camorristi potenti, come la rinomata sala da gioco del professor Rapi, che diverrà poi uno degli imputati del processo Cuocolo.
Alcuni camorristi arrivarono addirittura a sfiorare gli ambienti di corte, dato che molti esponenti di Casa Savoia, come il principe Amedeo, la principessa Iolanda o Umberto II, amavano la bella vita napoletana. Probabilmente fu proprio questa la goccia che fece traboccare il vaso e fece finire in carcere tutti i delinquenti più in vista.
Corsi e ricorsi storici
Francesco Saverio Nitti, che ricordiamo essere uno dei padri del meridionalismo, fu ferocissimo nel suo giudizio:
“Il problema di Napoli non è economico, ma soprattutto morale: è l’ambiente morale che impedisce qualsiasi trasformazione economica. (…) Al governo fa assai comodo date le instabili vicende della politica di avere una base solida; così tutti i governi lavorano il mezzogiorno e lasciano fare (…). Il governo lavora chiudendo gli occhi sui furti, spesso determinandoli, fomentando la corruzione, mantenendo impunite colpe chiare e patenti. Si può dire, in tutta onestà, che a Napoli il più grande e il più pericoloso camorrista sia sempre stato il governo”.
Eugenio Guarino, altro socialista, definì la situazione sociale e politica di Napoli ad inizio ‘900 come “il ritorno del Vicereame”, con Edoardo Scarfoglio che, sopravvissuto alla morte della triade con i condannati Casale e Summonte, si era trasformato nell’organo d’informazione del potere giolittiano, che nelle sue ramificazioni napoletane era corrotto e colluso con la Camorra.
Allo stesso tempo Guarino fu ferocissimo anche contro le decisioni delle amministrazioni napoletane di rievocare le antiche feste popolari borboniche come la ‘Nzegna, che erano state abolite dopo l’Unità d’Italia (ma erano comunque svolte ogni anno). Spiegò che erano “uno specchietto per le allodole che doveva tenere a bada il popolo, distraendolo dalle inchieste sulla politica e criminalità“.
In questa vita decadente fatta di ipocrisie e corruzione, come spesso accade, lo Stato Italiano decise di risolvere la questione con un gesto esemplare. Nel 1900 mandò a Napoli un magistrato di Savona che commissariò il Comune con un incarico: far piazza pulita di tutta la classe dirigente napoletana.
Era il tempo dell’Inchiesta Saredo, il momento in cui fu completamente scoperchiato il vaso di Pandora delle collusioni fra politica, imprenditoria e camorra napoletana.
Come sempre, però, il lavoro rimase a metà. E ripulita la classe corrotta, non si fece null’altro. Lo dirà amaramente anche il commissario Anceschi vent’anni dopo, sotto ben altro regime politico.
Corsi e ricorsi storici.
-Federico Quagliuolo
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