Va‘ a vasà ‘o pesce ‘e San Rafèle. Il Sacro ed il Profano a Napoli sono in continua mescolanza, in questo caso il protagonista è un pesce.
Ovunque si riesce a trovare reminiscenze di antichi culti e tradizioni che fondevano conoscenze e ritualità provenienti da epoche ancestrali. E’ questo il caso di un culto molto particolare, un culto che ha il suo fulcro in una chiesa del quartiere Materdei; la chiesa di San Raffaele.
La chiesa in questione, costruita nel 1759, presenta al suo interno dei dipinti che ci riportano alle vicende bibliche dedicate alla figura di San Raffaele. Il pittore Angelo Mozzillo infatti realizzò degli affreschi, raffiguranti rispettivamente Tobia e Sara nella casa di Tobi e San Raffaele nell’accezione di “Medicina Dei”, in quanto in ebraico “Rafa’el” significa “Dio ha guarito”.
Ma cosa c’entra dunque questo famigerato pesce di San Raffaele?
Sicuramente la tradizione ha avuto origine per via della statua del santo, presente all’interno della chiesa. Qui l’arcangelo è raffigurato con in mano una cesta contenente dei pesci. Questa sua rappresentazione è da collegare direttamente alla storia biblica narrata all’interno del libro di Tobia.
Secondo la storia infatti, Tobia deve intraprendere un viaggio per aiutare sia il padre Tobi che Sara. Avendo pregato ardentemente tutte e tre per un intervento divino, viene mandato in loro soccorso, sotto mentite spoglie, l’Arcangelo Raffaele. E’ proprio Raffaele a fare da guida a Tobia durante il suo viaggio, tramite il quale egli troverà ciò che gli serve per salvare la vita al padre e all’amata.
Si narra infatti che Tobia, durante una sosta presso il fiume Tigri, venga assalito da un pesce. L’Arcangelo però lo esorta a combattere e, così facendo, Tobia riesce a sconfiggere la bestia afferrandola per la testa. Dopo l’arduo combattimento egli estrae dal pesce il fiele, il cuore e il fegato. Grazie a questo avvenimento Tobia può tornare a Ecbatana dove guarirà la sua amata Sara, utilizzando ciò che aveva prelevato dall’animale. In seguito con il fiele Tobia guarisce anche suo padre, restituendogli la vista.
Va‘ a vasà ‘o pesce ‘e San Rafèle e Vittorio Emanuele
A Napoli, terra di mescolanze, in questo caso l’esortazione “Va’ a vasà ‘o pesce ‘e San Rafèle”, ovvero ad andare a “baciare il pesce di San Raffaele” è vista come un segno benaugurale per le giovani fanciulle, sia che esse cerchino marito o di avere un figlio. In questa tradizione, che appunto prevede di baciare il pesce contenuto nella cesta portata da San Raffaele, si ravvisano reminiscenze di culti pagani campani legati alla fertilità, che poi con il tempo si sono mischiati a culti cristiani. Difatti il pesce è un simbolo molto usato nel cristianesimo, poiché simboleggia il mare, indice di fertilità per antonomasia.
Questa tradizione è riportata anche all’interno della canzone “Italiella” della Nuova Compagnia di Canto Popolare, dove si recita: “A mugliera ‘e Manuele vasa o’ pesce ‘a San Rafele”. Il verso infatti adduce alla vicenda della moglie di Vittorio Emanuele, la quale non riusciva a partorire un erede al trono e, pertanto, decise di rivolgersi al santo.
Essendo i napoletani un popolo di inguaribili giocherelloni, è impossibile non cogliere il doppio senso dell’augurio; laddove appunto il pesce, nella cultura napoletana, ha una connotazione prettamente allusiva.
Ma non ci si può fare nulla, l’anima scherzosa di Napoli non tramonterà mai!
Gaia Borrelli
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