L’affitto si pagava in carlini, ducati e cavalli, l’altezza si misurava in palmi e le giornate si misuravano in quarti da sei ore a partire dal tramonto. Per non parlare di Acino, Cannone, Tomolo e Ziracchio. Non è una storia inglese o americana: stiamo parlando delle unità di misura napoletane prima del 1861, quando fu unificato anche lo standard nazionale dopo un’opera mastodontica di studio di tutte le differenze regionali.
Prima del XVIII secolo, quando in Francia, grazie a Luigi Lagrange, si cominciarono a stabilire i primi standard di misurazione internazionali, ogni Stato adottava le sue unità di misura e spesso, a parità di sistema, c’erano differenze anche fra città e città. Leggiamo infatti spesso nelle cronache mercantili del passato che i genovesi, ad esempio, avevano una “pietra del pesce” molto più piccola di quella napoletana e, di conseguenza, vendevano pesci più piccoli a un costo superiore.
C’è ad esempio una lettera scritta a Palermo nel 1508 che denuncia “grandi abusioni di mesuri perchi in omni loco tenimo diversi mesuri“. Insomma, anche solo capire il peso e il costo di una pagnotta di pane fra una provincia e l’altra dei regni di Napoli e Sicilia era un gran bel caos nel quale ci sguazzavano solo i mercanti disonesti.
La riforma di Federico I e il palmo napoletano
Il Regno di Napoli ha utilizzato, per circa 400 anni, le stesse unità di misura. Furono infatti stabilite nel periodo di Federico I d’Aragona, con un editto del 6 aprile 1480. Si chiamava “editto di perequazione” e serviva a creare un sistema di misurazione comune fra Napoli e Sicilia. Introdusse, come base fondamentale di tutto il sistema, il “palmo napoletano“.
La spiegazione del palmo napoletano la troviamo nell’editto del 6 aprile 1840 (le date invertite e il giorno identico, probabilmente, furono voluti), firmato da Ferdinando II per estendere a Napoli il sistema introdotto dal nonno, Ferdinando IV, il 31 dicembre 1809 in Sicilia.
La definizione di palmo napoletano è questa: la “sette milionesima parte di un minuto del primo del grado medio del meridiano terrestre ovvero la sette milionesima parte del miglio geografico d’Italia, pari a 0,26455026455“.
Nel 1840 fu aggiornato anche il palmo napoletano di Federico I d’Aragona: rimase in vigore per quasi quattro secoli era invece una lunghezza pari a 0,2633333670 metri, leggermente più corto di quello borbonico. Va distinto dal passo, che invece è un’altra misura di distanze. Nel 1480 esistevano due passi: passo itinerario composto da 7 palmi (1,84569 metri) e passo della terra, fatto da 7 palmi e 113 (1,9335799 metri). Questa differenza creò caos infiniti in tribunale.
Nel Duomo di Napoli esiste il campione dell’unità di misura del passo napoletano: è un’asta di ferro di 194cm incastrata nell’ultimo pilastro della navata sinistra prima del transetto.
Lunghezze anglosassoni
“‘nu palmo e nu ziracchio” è un’espressione antica, che identificava una distanza relativamente breve. lo ziracchio era infatti la distanza fra il pollice e l’indice della mano tesa, circa 15 centimetri.
Il sistema delle distanze nel Regno di Napoli (e poi delle Due Sicilie) seguiva una progressività con multipli di tre simile a quella che esiste ancora oggi nel mondo anglosassone. C’erano poi anche numerosissime unità di misura non convenzionali (un po’ come la nostra tonnellata e il quintale): il braccio, ad esempio, era 0,5421 metri.
Ferdinando II nel 1840 semplificò un sistema complesso come pochi:
1 miglio (1851,8519 metri) – equivalente a 700 canne
1 canna (2,645503 metri) – equivalente a 10 palmi
1 palmo (0,26455 metri)
Dal 1480 al 1840 è esistita una misurazione complicatissima:
1 miglio (1845,69 metri) – equivalente a 100 catene
1 catena (18,4569 metri) – equivalente a 10 passi itinerari
1 pertica (2,63670 metri) – equivalente a 10 palmi
1 canna (2,10936 metri) – equivalente a 8 palmi
1 pertica agrimensoria (o passo da terra) (1,85448 metri) – equivalente a 7,33 palmi
1 passo itinerario (1,84569 metri) – equivalente a 7 palmi
1 palmo (0,263670 metri) – equivalente a 12 once
1 oncia (0,021972 metri) – equivalente a 5 minuti
1 minuto (0,004394 metri)
Banconote? No, grazie!
Il sistema monetario del Regno delle Due Sicilie e di quello di Napoli era abbastanza diverso da quello degli stati preunitari di fine XIX secolo. Non furono infatti mai emesse banconote (nel Regno di Sardegna invece erano già presenti da più di cent’anni), ma erano presenti le “fedi di credito” che erano più simili alla cambiale ed erano titoli nominativi che, di fatto, erano scambiati al posto delle banconote usando la “girata“(ma con maggiore difficoltà e burocrazia: l’operazione di prelievo era molto complessa e, in caso di irregolarità, si perdevano i soldi).
Mettiamo da parte il periodo di Gioacchino Murat, dove fu introdotta la lira (e si provò anche a rendere come standard il sistema metrico decimale francese, senza successo) e concentriamoci sulle monete dell’ultimo periodo del Regno delle Due Sicilie, che sono eredi di più di seicento anni di tradizione napoletana. In Sicilia, invece, nel 1816 fu cancellata la piastra, che invece era l’unità di misura monetaria usata sin dai tempi degli Aragona.
Il Ducato delle Due Sicilie era l’unità di misura monetaria e doveva pesare 22,943 grammi di argento. Al cambio nel 1861, 1 Ducato equivaleva a 4,32 Lire Italiane. Considerando l’inflazione, possiamo dire che 1 Ducato delle Due Sicilie aveva il potere di acquisto di circa 25 euro attuali.
Monete di rame (tornesi):
10, 8, 5, 4 ,3 ,2, 1, 1\2, 1, 1\2 tornese
Monete d’argento (grana)
10 grana (carlino)
20 grana (tarì)
60 grana (mezza piastra)
120 grana (piastra)
Monete d’oro (Ducato)
3,6,15 e 30 ducati
Le monete d’argento conservarono, nel parlato comune, termini come “carlino” (da Carlo d’Angiò, che la introdusse) o “piastra” (dalla moneta siciliana), in relazione al loro potere d’acquisto. Erano infatti sicuramente le più scambiate quotidianamente. La moneta da 30 ducati, dal valore di circa 750 euro moderni, ci fa capire come il sistema monetario fosse stato progettato in modo tale da soddisfare qualsiasi esigenza di pagamento pro manibus.
Il tempo a Napoli
Anche il tempo era diverso nell’Italia preunitaria. Ne è una testimonianza ancora la presenza di qualche meridiana con su scritto “ora italiana“, spesso vicina ad “ora francese” o “ora europea“.
Il concetto della giornata di 24 ore divisa in due metà da 12, infatti, risale sempre alla Francia illuminista che creò anche il sistema metrico moderno (Lagrange provò addirittura a introdurre il “tempo metrico“, dividendo la giornata in 10 ore divise in 100 minuti, ma fu un insuccesso clamoroso).
Prima di allora non esistevano il mezzogiorno e la mezzanotte, ma gli orari erano decisi in base al tramonto e all’alba.
La giornata in Italia era calcolata in spicchi da sei ore a partire dall’Ave Maria (mezz’ora dopo il tramonto). Di conseguenza, una mezzanotte nel Nord Italia era già notte passata nel Sud Italia. In Campania sono sopravvissuti 29 orologi che conservano la misurazione a 6 ore.
Nei paesi erano installate le “torri campanarie” che erano di fatto degli orologi pubblici molto alti con campane che avevano il compito di calcolare il tempo con i rintocchi. I popolani non sapevano infatti leggere le meridiane e gli orologi meccanici erano costosissimi. Interessante fu il caso della torre dell’orologio di Arzano che, dopo l’Unità, non era stato ancora aggiornato con il nuovo sistema orario a 12 ore, mentre gli altri paesi vicini avevano avuto i nuovi orologi.
Ne conseguì un vero caos di orari e appuntamenti mancati che portò a una petizione pubblica per l’installazione di un nuovo meccanismo.
Un peso per ogni professione
Il sistema dei pesi nel Regno di Napoli era estremamente dettagliato, figlio delle esigenze particolari di ogni corporazione nel corso dei secoli.
I pesi generici vanno classificati così:
1 cantaro (equivalente a 100 rotoli) – 89,0997 chili
1 rotolo (equivalente a 1000 trappesi o 33.3 once) – 0,890997 chili
1 libbra (equivalente a 12 once) – 0,32 chili
1 oncia (equivalente a 30 trappesi) – 0,026 chili
1 trappeso 0,890997 chili.
Prima del 1840 il cantaro era la massima unità di misura. Questa parola ancora oggi è presente in qualche detto popolare ed indica appunto un recipiente di grosse dimensioni (usato anche per i servizi igienici). Equivaleva a 100 libbre o 36 rotoli ed equivale a 32,0759 chili.
Fin qui tutto regolare. Il problema è che ogni disciplina possedeva un suo sistema di classificazione dei pesi.
C’erano due sistemi diversi diversi per gli orefici e per i gioiellieri, ad esempio: 1 oncia (0,026 chili), equivale a 30 trappesi (0,89 grammi l’uno). A loro volta, 20 acini (0,044 grammi l’uno) fanno un’oncia. Differenti invece le misure dei gioiellieri:
1 oncia è fatta da 130 carati (0,20g l’uno), a loro volta divisi in 4 grani (0,05 grammi). Un grano è fatto da 16 sedicesimi (0,05g).
Andiamo a casa dei farmacisti: qui le cose sono ancora più complesse. L’oncia rimane il sistema massimo di riferimento. Per pesare un ingrediente di un medicinale, però, per ottenere un’oncia bisogna sommare 10 dramme da 2,67 grammi. A loro volta, le dramme sono fatte da 3 scrupoli (0,89g). Uno scrupolo è fatto da due oboli (0,44g) e un obolo da 10 acini (0,04g).
Liquidi e olio
Fra le unità di misura napoletane i liquidi erano più lineari, in un certo senso.
Le misure generiche erano queste e furono introdotte anche per regolamentare le dimensioni dei contenitori, che obbligatoriamente dovevano essere capaci di ospitare il determinato quantitativo di liquidi. Il Regno delle Due Sicilie aveva infatti una tassazione specifica sulle importazioni di vino, olio e altri prodotti liquidi: venivano calcolate in base al numero di botti e barili.
1 botte (523,50036 litri) – equivalente a 12 barili
1 barile (43,625 litri) – equivalente a 60 caraffe
1 caraffa (0,72 litri) – equivalente a 23,143 once
Fino al 1840 esisteva anche una misurazione particolare per l’olio:
1 stajo (10,08 litri) – equivalente a 16 quarti, con peso di 10,33 rotoli
1 quarto (0,63 litri) – equivalente a 6 misurelle
1 misurella (0,105 litri)
Anche qui alcune parole come “il quartino” o “la misurella“ sono rimaste nel parlato comune. Più in generale, queste misurazioni sono figlie della tradizione mercantile: in special modo botte e barile vengono dai trasporti di terra e su mare delle materie prime.
Insomma, la prossima volta che faremo un litro di benzina, quando percorreremo un paio di chilometri o ordineremo un etto di prosciutto, dovremo ringraziare di essere nati in un’epoca in cui esiste il moderno sistema degli standard internazionali. Tutto grazie al colossale lavoro di matematici e tecnici che furono chiamati a normalizzare tradizioni secolari che separavano i popoli.
-Federico Quagliuolo
Riferimenti:
Carlo Afan de Rivera, Tavole di riduzione dei pesi e delle misure delle due Sicilie in quelli statuiti dalla legge de’ 6 aprile 1840, Napoli, Stamperia e cartiere del Fibreno, 1840
Ferdinando Visconti, Del sistema metrico della città di Napoli e della uniformità de’ pesi e delle misure che meglio si conviene a’ reali domini di qua dal faro, Napoli, Stamperia Reale, 1838
A. Placanica, Moneta, prestiti, usure nel Mezzogiorno moderno, Napoli 1982;
Tavole di ragguaglio dei pesi e delle misure già in uso nelle varie province del Regno, Ministero per l’Industria e l’Agricoltura, Roma, 1877
MISURE E PESI CONSUETUDINARI | Noi dell’AcSimeri
https://www.movio.beniculturali.it/ascz/cartografiaarchiviodistatocatanzaro/it/41/scale-numeriche
La misurazione del tempo nei secoli passati (carnesecchi.eu)
Il Tornese Napoletano nel periodo vicereale – Monetazione e Medaglistica del Sud Italia – Tuttonumismatica.com
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