Aggressori o benefattori. Amati o odiati. La Francia e Napoli cotninuamente hanno intrecciato le proprie storie nel bene e nel male. E le eredità francesi a Napoli oggi si trovano nei nomi delle strade, nei dolci preferiti e addirittura nel parlato e negli oggetti di uso comune.
Scopriamo alcune suggestioni che ci fanno capire quanto importante sia stata l’influenza della cultura francese sulla Storia di Napoli e di tutto il Sud Italia.
I nomi delle strade simbolo delle eredità francesi a Napoli
“Rua Toscana”, “Rua Catalana”, “Renovella”. Perché non hanno il classico nome di “Via” del Regno d’Italia o “Strada” di memoria borbonica?
La ragione è una: il nome “Rua” è una storpiatura del “Rue” francese. La stessa Renovella è l’unione delle parole “Rue Nouvelle“, dato che fu aperta in prossimità delle antiche mura angioine: all’epoca la città fu divisa per mestieri o per nazionalità. Ecco allora che Rua Catalana ospitava i mercanti della catalogna, espertissimi nella lavorazione dei metalli, mentre Rua Toscana vedeva le case dei banchieri toscani.
E poi Piazza Francese, dalle parti del porto.
Andando avanti di alcuni secoli, ecco che la Francia passa da amica a nemica: c’è infatti Cupa Lautrec che ricorda uno degli episodi più tristi della storia cittadina: l’assedio del Conte di Lautrec nel XVI secolo, quando la città fu ridotta alla fame e si salvò solamente per un’epidemia di peste che decimò i soldati nemici. La zona della Cupa, nel quartiere di Poggioreale, ricorda il luogo in cui c’era l’accampamento francese, mentre il Ponte dei Francesi ricorda il punto in cui erano presenti le truppe alle porte della città.
Andiamo avanti di altri due secoli. E stavolta ritroviamo i francesi sul trono di Napoli: l’attuale Corso Amedeo di Savoa nacque col nome di Corso Napoleone. Oggi è la più importante arteria che collega Capodimonte col centro storico.
Gli Orefici e Piazza Mercato
Un intero quartiere, in realtà, è diretto erede del periodo francese a Napoli. La zona Mercato-Orefici fu infatti realizzata in un primo momento dalla volontà di Carlo d’Angiò che, quando stabilì a Napoli la capitale del nuovo regno, espanse le mura cittadine e inglobò quello che un tempo era il “Campo del moricino“, che si chiamava così perché era un enorme spiazzo in cui i mercanti saraceni portavano gli oggetti comprati in giro per il Mediterraneo e li rivendevano ai napoletani. La volontà di Carlo fu quella di regolamentare uno spazio che, ormai, era a tutti gli effetti parte della vita cittadina.
Differente è la storia del Borgo degli Orefici: fu realizzato per volontà della Regina Giovanna, che portò a Napoli una delle arti più amate e raffinate dalla nobiltà dell’epoca. Data la vicinanza con il porto commerciale, fu facile attrarre in città gli orafi provenienti dalle regioni centrali della Francia. Le botteghe francesi a Napoli, però, durarono poco più di un secolo: i napoletani non si accontentarono di essere semplice manovalanza. Impararono presto l’arte dell’oreficeria e, in poco tempo, le maestranze locali sostituirono completamente quelle francesi. Ancora oggi, a distanza di 700 anni, sono presenti gli orefici negli stessi luoghi frequentati sin dal medioevo.
La chiesa di Sant’Eligio, che chiude il Borgo, si riferisce proprio ad Eligio di Noyon, un orafo e funzionario di corte sotto i Merovingi che diventò famoso per le sue opere di carità: riscattava i prigionieri pagandoli con i propri averi. Diversi secoli dopo la sua morte, furono diffuse numerossisime leggende sul suo conto: si dice che riuscì a riattaccare la zampa di un cavallo che aveva perso un arto e questa storia ebbe grande popolarità nel medioevo. In Francia ancora oggi si benedicono i cavalli il 1 dicembre, giorno del santo. Il culto è presente anche a Nocera Inferiore.
L’arte della porcellana e le collezioni di antichità
Qui l’influenza francese non è diretta, ma portata dalla dinastia dei Borbone che subiva molto il fascino del fasto della corte di Parigi. Non è un caso, d’altronde, la scelta della costruzione della Reggia di Caserta e del dualismo che ha sempre vissuto con quella di Versailles. Carlo di Borbone, giunto in un territorio ridotto in macerie morali ed economiche dopo il Viceregno, volle infatti dimostrare alle corti francesi che Napoli era tornata una capitale degna di misurarsi con tutte le corti europee. E per questa ragione doveva misurarsi, in termini di bellezza, ricchezza e fasti, con la corte più sfarzosa d’Europa: quella di Parigi. Non dimentichiamo anche il legame diretto che i Borbone di Napoli hanno con la dinastia francese: il padre, FIlippo V di Spagna, nacque a Versailles ed era nipote di Luigi XIV.
Nel XVIII secolo la nobiltà francese coltivava due passioni: il collezionismo di antichità e le chinnoiserie, l’arte delle porcellane orientali. Qui Carlo di Borbone decise di sorprendere tutti: fu infatti promotore della Fabbrica di Porcellane di Capodimonte, che diventò eccellenza assoluta in ambito europeo. Poi il fato aiutò la monarchia borbonica: la scoperta di Pompei segnò infatti una svolta decisiva nell’intero corso dello studio della Storia antica. Per i re di Napoli diede la possibilità di creare la più grande collezione di oggetti antichi del mondo intero, di fatto prendendo tutto da casa propria. Nello stesso periodo storico, e nel secolo seguente, divennero invece famose le missioni di saccheggio che portavano avanti proprio francesi e inglesi nelle colonie. Oggi gran parte della collezione di Pompei è esposta nel Museo Archeologico Nazionale.
Il Maschio Angioino
Il palazzo del potere per più di quattro secoli. Il Maschio Angioino doveva sostituire il vecchio Castel Capuano, che Carlo d’Angiò odiava particolarmente perché era ritenuto brutto e scomodo. Fu chiamato, non a caso, un team di architetti francesi per la costruzione: Pierre d’Agincourt e Pierre de Chaulnes. Quello che vediamo oggi è un castello completamente modificato: ha perso le mura dopo la II Guerra Mondiale e la sua architettura fu completamente rivisitata dagli aragonesi, trasformandolo in un castello dal gusto catalano.
Se però vogliamo vedere una struttura quasi identica all’originale Maschio Angioino, dobbiamo andare a Durazzano: il castello di questa piccola cittadina in provincia di Benevento fu infatti costruito come copia dell’edificio napoletano. Oggi è ancora abitato ed ha subito enormi devastazioni al suo interno, mentre esternamente conserva la struttura dal gusto francese.
Il gotico e l’architettura francese
Anche qui le eredità ancora oggi esistenti a Napoli sono davvero poche. Una su tutte, però, è l’esempio massimo dell’eredità francese in città: San Lorenzo Maggiore è infatti la chiesa gotica di Napoli per eccellenza, rimasta pressoché intatta nelle sue forme. Differente è stato il destino di Santa Chiara, voluta da Roberto d’Angiò, che fu completamente ricostruita in stile barocco e poi distrutta. Anche Sant’Eligio, in zona Mercato, si è conservata dignitosamente. Il nome, data la vicinanza con il Borgo Orefici, non è affatto casuale.
Alcuni esempi di architettura francese sono sopravvissuti anche nei dintorni: come non pensare ai porticati angioini di Via dei Tribunali?
Le parole francesi a Napoli
Buatta, bigiù, appresso, coccarsi, fuire, sciuè sciuè. Sono solo alcuni dei tantissimi esempi che potremmo fare di parole francesi finite nel napoletano e trasformati in parole di uso comune. Alcuni termini umili hanno origine angioina e derivano dalla prima dominazione francese di Napoli. Interi quartieri cittadini furono infatti invasi dai mercanti e dalle comunità che venivano dalla Francia e dai territori amici della dinastia di Re Carlo.
Altre, invece, furono adottate fra il XVIII e il XIX secolo come vezzo dalla nobiltà e dalla borghesia. Il meccanismo non è diverso da quello moderno: oggi infatti si italianizzano molti termini inglesi. In passato accadeva lo stesso, ma con il francese che era considerata la cultura di riferimento. Non bisogna infatti dimenticare che nel Regno di Napoli, ma anche nel Regno delle Due Sicilie, la conoscenza perfetta della lingua Francese era considerata basilare per qualsiasi uomo di cultura. Nelle scuole era infatti insegnata assieme all’Italiano. Fu per molti secoli anche la lingua della diplomazia in Europa, prima dell’avvento dell’Inglese.
Sulle eredità francesi a Napoli in ambito linguistico ne abbiamo parlato qui.
Una bandiera
Durò pochi mesi. Ma non si può non inserirla fra le eredità francesi a Napoli. La Repubblica napoletana, di ispirazione giacobina, fu infatti quel breve periodo storico nel 1799 nel quale si cercò di avvicinare il Regno di Napoli alla sfera francese. I rivoluzionari napoletani, con personalità del calibro di Domenico Cirillo, Eleonora Pimentel Fonseca e Mario Pagano, aiutati dalle truppe francesi costrinsero Ferdinando IV di Borbone all’esilio in Sicilia e dichiararono nata la Repubblica Napoletana, che di fatto imitò la Francia a partire dalla bandiera. Fu infatti preso il tricolore francese e sostituita la fascia bianca (che in teoria riprende proprio il colore della casata borbonica) con l’oro napoletano.
Questo inedito tricolore durò molto poco: il cardinale calabrese Fabrizio Ruffo, con l’Esercito della Santa Fede e con l’aiuto di Inglesi e Austriaci, riuscì a riconquistare Napoli e rimettere sul trono Ferdinando. Il periodo della restaurazione borbonica fu seguito da severissime condanne a morte di tutte le famiglie rivoluzionarie, con confische di beni, carcerazioni preventive e censure. Si aprì in quel momento una frattura politica e sociale fra borbonici e liberali che ancora oggi, a distanza di due secoli, non è sanata.
A dire il vero non è la prima volta che i francesi cercavano di riprendersi Napoli dopo la fine degli Angioini: Ferrante I d’Aragona ne sa qualcosa, con le pretese dei discendenti angioini sul trono, e soprattutto durante la Rivoluzione Napoletana di Masaniello, fu istituita per un brevissimo periodo la Real Repubblica Napoletana, con a capo il Duca di Guisa, un nobiluomo francese che sperava di prendere il controllo del Regno di Napoli.
Il bidè
In francese la parola “bidet” significa letteralmente “piccolo cavallo“. Fu infatti questo il nome dato allo strumento di igiene intima che fu ritrovato nella Reggia di Caserta dopo l’Unità d’Italia. La spiegazione è molto semplice: bisognava assumere la posizione di “cavalcata” per utilizzarlo. Fu un oggetto che ebbe un brevissimo periodo di successo in Francia. Fu installato nella stanza del primo ministro francese da Christophe Des Rosiers nel 1726, per agevolare la pulizia delle parti intime della moglie e, di conseguenza, prevenire o ridurre le malattie. La trovata bizzarra piacque molto anche ai reali francesi, che ne ordinarono alcuni anche per la Reggia di Versailles.
Poi intervennero i preti: alcuni cardinali francesi sostennero che questa nuova moda del bidet andava contro la religione: lavarsi le parti intime costringeva infatti alla stimolazione di queste ultime, cosa scandalosa per persone di buona fede. Ergo: in meno di cinquant’anni furono archiviati.
Il ragionamento fu diverso nei paesi nemici della Francia, dove la trovata del bidet fu vista con diffidenza: quando comparve per le prime volte in Inghilterra e in Austria, si pensò che solo una prostituta dovrebbe lavarsi le parti intime, quindi il bidet era chiaramente un oggetto non adatto alla nobiltà. Non è un caso, insomma, che nella sfera dei paesi centroeuropei storicamente ostili alla Francia non ci sia la cultura del bidet.
L’oggetto, nel frattempo, aveva catturato l’attenzione della corte di Napoli che, nella costruzione della Reggia di Caserta, non potè fare a meno di copiare anche questo piccolo dettaglio: qui il bidet non ricevette particolari censure e si diffuse molto rapidamente presso la nobiltà, dato che nel Regno di Napoli c’era una cultura della pulizia personale molto avanzata per i tempi passati.
Il babà, gli sciù, la passione per i dolci
Il re della cucina napoletana è franco-polacco. Già il nome ci lascia capire benissimo da dove viene!
Il suo percorso, però, comincia molto più lontano: dal Babcia polacco. Ancora oggi è un dolce tradizionale della Polonia e la sua forma a ciambella è pressoché identica alla torta babà che oggi si realizza a Napoli. Con la differenza che manca il rum e la lavorazione ricorda più quella di una ciambella dolce. Fu infatti una pasticceria francese a rielaborare il dolce, arricchendolo con rum e una preparazione e una forma diversa, quella famosa “a fungo“. La stessa che, guardacaso, arrivò proprio a Napoli e fu amata alla follia dai napoletani.
Come dimenticare il salato?
Gattò, ragù, sartù su tutti. La cucina francese, così come la cultura culinaria d’oltralpe in generale, ebbe un’esplosione sotto il periodo borbonico grazie ai Monsù, storpiatura di monsieur: l’appellativo che si dava per rispetto ai cuochi francesi.
A dire il vero, Ferdinando IV di Borbone cercò di dare un taglio all’elaboratissima cucina francese sulle tavole reali (addirittura più volte cercò di inserire la pizza nei menù della Casa Reale, con grande sdegno della moglie). Ci riuscì il nipote Ferdinando II.
Non è un caso, d’altronde, che i napoletani chiamano “zoza” gli intrugli dal sapore rivoltante. Fu un modo volgare per storpiare il francese “sòs“, ovvero salsa, che fu accostato al termine “lota“: la moda della cucina d’oltralpe, che privilegia moltissimo l’utilizzo di creme e salse, fu infatti accolto molto male dai napoletani, che nel XVIII secolo si stavano abituando ai nuovi sapori di pomodoro e patate.
D’altro canto, il binomio cucina francese=cucina d’alto livello è stato un muro difficilissimo da abbattere fino alla metà del XX secolo, dato che la cucina italiana era considerata come materia popolare . Anche qui la Campania ci ha messo il suo zampino: la rinascita della cucina italiana cominciò negli anni ’50 partendo da Pioppi, in Cilento, grazie all’opera degli scienziati americani Ancel e Margaret Keys e alla loro opera di divulgazione della Dieta Mediterranea.
Anche il pane napoletano ha influenze francesi: come non pensare al Marsigliese, che è simile a una baguette tagliata a metà? Il nome già ci racconta l’origine: è un tipo di pane diffuso infatti a Salerno e Napoli, i due porti più attivi della Campania che, storicamente, ebbero strettissimi rapporti con Marsiglia, che è il porto francese sul mediterraneo. Fino al XX secolo, infatti, la tratta Marsiglia-Napoli era una delle più attive del Mare Nostrum e, meglio di ogni altra cosa, ci racconta l’ambivalenza del rapporto fra la Francia e Napoli: per secoli Marsiglia e Napoli furono legate da uno stretto rapporto mercantile, che fu proprio il canale sul quale passarono oggetti, parole e protagonisti che hanno scritto la storia di Napoli e il suo regno arricchendolo con la cultura francese.
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