La prostituzione a Napoli era una piaga purulente nel tessuto sociale della città, primaria conseguenza delle condizioni di vita della plebe più meschina.
“Hanno puosto mano a la votte de l’onore” racconta il Basile in una sua favola, La Papara, di due donne improvvisamente arricchitesi.
“Imperciocchè vi erano di molte madri ribalde, e forse alcuni padri simili, che avevano delle figliole femmine, su le quali disegnavano di procacciarsi il vivere, e sapendo, che da maestri del Conservatorio dello Spirito Santo sarebbero state tolte mentre ch’elle fussero vergini, con diabolica sollecitudine o che le davano in età quasi puerile in preda di quegli scellerati, ch’eran vaghi di violarle … da che poi quelle misere fanciulle diventavano femmine da mondo” si scriveva nel 1585.
Una tassa per la prostituzione a Napoli
Dal 1401 le meretrici furono tassate con una gabella che variò nel tempo e che sarà abolita solo nel 1640. Nel 1532 sono obbligate a iscriversi in un apposito albo con sanzione di una pena pecuniaria da devolversi a “…chi l’accuserà guadagnerà la quarta parte della pena e sarà tenuto secreto“. Chi voleva sottrarsi alla gabella “have da vivere con un homo solo e non più“. I regnanti che si succedevano i Durazzo, gli Angioini, gli Aragonesi e i viceré spagnoli non hanno remore in proposito. Nel 1750 si scrive che la parte più vicina al mare di Castelnuovo, fu costruita con i proventi della gabella “e sopra parti delle pietre vi si vede intagliata la figura delle parti vergognose delle donne“.
La prostituta è una creatura miseranda, che spregiosamente viene gratificata con i più vari epiteti: Ingabellata perchè sottoposta alla gabella, prubbeca perchè donna pubblica, perchia dal nome dialettale di un pesce di infimo valore, caiorda per puzzola animale abietto, cantoniera perché sempre in sosta agli angoli delle strade, ceuza perchè moltissime vivevano nei malfamati Quartieri Spagnoli ove un tempo vi erano estese piantagioni di gelsi, sbriffia, civetta in dialetto, scalorcia per femmina strapazzata e ancora donna da partito, locena, loffa e l’universale puttana, epiteto che ha resistito all’usura del tempo.
Una gara fra prostitute
Particolarmente richieste erano quelle di origine spagnola venute nel Regno a cercar miglior fortuna, delle cui capacità professionali si diceva ”Oh las espanoles son las mejores y las mas perfectas”. Le napoletane non erano però da meno.
In un garbato “contrasto curioso tra Venezia e Napoli”, testo nel quale si esaltavano i pregi delle due città, si sosteneva a proposito delle cortigiane
Chi mira le signore di partito,
Se di legno non è, sente appetito
Il livore nei loro confronti si esprimeva anche nei versi: Giovan Battista Valentino scritturale al Tribunale della Vicaria, “Io che so no povero screvano”, fu così definito da Andrea Perruccio:
“Chillo che llà tu vide è Valentino,
Che de li tiempe suoie dice gra’ male
al quale la miracolosa sopravvivenza alla grande peste del 1656 non ingentilì l’animo scriveva:
E tu pottana, che baje scapillata,
Scrofa, bagascia, a tutte quante nota,
…
tu che Sciorta o Fortuna si’ chiammata,
e de gnorante e guittune devota
e de me sempe nemmica mortale,
si dico buono, sciacqua n’aurenale
Fu Eleonora contessa di Olivares, moglie del vicerè Manuel de Zuniga y Fonseca pur ritenuta donna ambiziosissima e autoritaria tanto che si cantava:
Monterrey es grande ya;
Carpio en la Camara està;
Don Gaspar es presidente;
Las mujeres de esta gente
Nos governan. Bueno va!
a fondare il monastero della Maddalenella nel quale furono ricoverate le prostitute spagnole che volevano lasciare la via del peccato. Dovevano essere “mujeres pecadoras publicas espanolas por linea masculina”.
Nel 1600 le meretrici che si pentivano della loro vita passata erano accolte come novizie “negl’Incurabili nell’Ognissanti”. Abbigliate e ingioiellate scendevano dal Noviziato al portone della pia casa ove davanti a un altare eretto per l’occasione pregavano, deponevano vesti e gioielli, indossavano il velo e il soggolo, si facevano tagliare i capelli e si seppellivano per sempre nella Clausura.
A una di queste commoventi cerimonie nella chiesa degli Incurabili durante la festa di Tutti i Santi si presentò la Maltese “donna libera però famosa” alla quale uno sbirro proibì l’ingresso. La signora, donna decisa, “diede un boffettone allo sbirro”, il duca di Ossuna presente alla scena “comandò che la maltrattassero a loro piacere, e gli sbirri le diedero di molte botte”, mentre le nobildonne presenti ridevano nascostamente “stavano con li manichetti nei loro musi”. E’ probabile che questa manifestazione di severità da parte del Viceré fosse dovuta alla presenza della consorte e della dame di corte perché di lui i contemporanei dissero: “Si abbandonava facilmente agli amorazzi che alternava con la ideazione di piani grandissimi”.
Il Vesuvio contro la prostituzione
Spesso a provocare il pentimento erano fenomeni naturali come le eruzioni del Vesuvio. In quella del 1631 molte prostitute “indurite et invecchiate nel peccato si convertirono abbandonando le lascivie e i lussi, alcune maritandosi, altre ritirandosi fra chiostri per mutar vita e cercar perdono dei passati errori”.
Fu una eruzione di particolare imponenza, il Giannone parla di “orribili eruttazioni, orride nubi”, che provocò gran terrore nella città e che veniva fatta risalire al solito divin castigo contro la rilassatezza dei costumi e la corruzione pubblica. Dovettero scendere in campo il busto d’argento di San Gennaro e le Sacre Reliquie, seguiti dal Viceré, dalle autorità civile ed ecclesiastiche e da gran folla caduta “per eccesso di pentimento in eccesso di penitenza”. Per tre giorni consecutivi il Santo uscì dalla sua cappella nel Duomo; fu portato al Carmine, a Porta Capuana e infine a Santa Maria di Costantinopoli. Finalmente quando il cardinale arcivescovo di Napoli Francesco Buoncompagno “col Sangue di San Gennaro liquefatto in mano ebbe fatto il segno della Croce verso il Monte, si videro le fiamme ed il fiume di lava scostarsi dalla città indietro, ed a voce di molti che fu visto S.Gennaro in habito pontificale benedicendo la città”.
Sarà Micco Spadaro ad immortalare la scena in uno dei suoi più famosi quadri.
I cronisti narrano altri episodi toccanti come quello di una prostituta che, talmente sconvolta e ravveduta dalla predica di un Gesuita “si spogliò tutta, e il spettacolo fu tale che commosse tutta l’udienza e il Predicatore steso (va inteso come stesso) a farle compagnia con abbondantissime lacrime di tenerezza …”.
L’espulsione delle prostitute e l’emigrazione a Roma
Quando sul problema non si poteva chiudere occhio, anche a seguito di interventi delle autorità ecclesiastiche o di mogli furenti, si provvedeva alla loro espulsione, come avvenne nel marzo 1679, provocandone in parte l’emigrazione a Roma ove erano richiestissime e il ritorno dopo poco tempo.
Di esse i cronisti contemporanei hanno tramandato i nomi dai quali si può in qualche caso rilevare la loro provenienza: Bella la Bastasa, la spagnola Malaghegna, Donna Dionisia, Falza la messinese, Nina di Cappella, Rosolea la Palermitana, Cannetella. A Roma di prostitute se ne calcolarono 30.000 al principio del Cinquecento con 20.000 mezzane.
Papa Alessandro di casa Borgia, grande esperto in materia, le divideva in “puttane da lume o da candela” e “cortigiane oneste”.
La lotta alla prostituzione per la quale i bandi e le prammatiche si sprecavano era persa in partenza. Si poteva diffidare “agli uomini ammogliati di andar di notte per case di cortigiane” ma la conclusione cui giunse il duca di Ossuna nel 1616 fu sconsolante: “andò curiosamente in seggia scorrendo tutte le strade del Quartiere sopra la strada di Toledo volgarmente detto le Celse; e si dice per rinserrarlo com’è solito per le altre città che vogliono vivere honoratamente. Ma qui non sarà possibile; bisognando, per volere rinchiudere tutte le cortegiane di Napoli, chiudere più della metà della città!”
Il problema della sifilide
Le proteste nascevano anche per il diffondersi della sifilide che si contraeva con estrema facilità; ”nfrancesarse” si diceva di chi contraeva il morbo che si riteneva erroneamente portato in Europa dai marinai spagnoli reduci dall’America e a Napoli dai soldati di Carlo VIII.
In Italia era definito “mal francese”, in Francia “morbo di Napoli” o “mal napolitano”.
Scriveva il Fulgosi nel suo De Dictis Factisque: “appellata: In Gallia Neapolitanum dixerunt morbum, at in Italia Gallicum appellabant, alii autem aliter…” in un reciproco scambio di accuse senza senso. La malattia era sempre esistita in forme attenuate ed ebbe una forte recrudescenza anche per la licenziosità dei costumi dell’epoca. Non mancò chi la attribuì agli schiavi negri importati dall’Africa o agli Ebrei fuggiti dalla Spagna.
Ciulla la prostituta
Tra di esse spicca la bellissima Giulia de Caro da Viesti sul Gargano, detta Ciulla. I contemporanei raccontano del suo fascino provocante e sensuale che la portò nel 1671, dopo burrascosi trascorsi, a primeggiare nei teatri napoletani.
Dai documenti ufficiali risultava “Comediante Cantarinola Armonica Puttana”. Migliorando nella sua carriera passò dal duca di Maddaloni a don Antonio Minutolo, acquistò col denaro di un suo amante, il marchese di Caggiano, il teatro di San Bartolommeo e, mirando sempre più in alto, divenne amante del viceré marchese d’Astorga ma, commettendo un errore di valutazione, si diede anche al nipote Pietro Guzman il che le costò l’esilio nel casale di Capodimonte. Morì nel 1695, dopo avere lasciato il mestiere da venti anni, il ricordo era così vivo che Domenico Confuorti ne lasciò un crudele epitaffio funebre. “E’ morta … la famosa un tempo puttana e canterina Giulia de Caro che pria di maritarsi fu il sostegno del Bordello di Napoli … è stata seppellita miseramente, … solo con quattro preti, una che al tempo del suo puttanesimo dominava Napoli et sic transit gloria mundi!“.
Don Antonio Muscettola duca di Spezzano così la cantava nel suo La Carilde.
Carilde ha il nome e non pensar che sia
la prima di sua stirpe a te sacrata:
Fu puttana la madre e fu la zia,
La suora, la cugina e la cognata…
Bernardina Pisa, la moglie di Masaniello
Eppure erano poche quelle che finivano la loro vita negli agi.
Bernardina Pisa, andata in moglie a sedici anni a Tommaso Aniello detto Masaniello, aveva vissuto nove inebrianti giorni all’ombra del Capitano Generale del Fedelissimo Popolo. Invidiata dalle femmine del Lavinaio ebbe in dono dalla viceregina “un’altra collana d’oro con cannacca di diamanti; con gli orecchini anche di diamanti del valore di diecimila scudi in circa”. Ricevuta a Palazzo Reale dalla duchessa d’Arcos a parole di circostanza “Sea Vostra Signoria Illustrissima muy bien venida” rispose con grande candore “E sia Lei la ben trovata! Vostra Eccellenza è la viceregina delle Signore e io son la viceregina delle popolane” concludendo il discorso con due sonori baci sulle guance della algida nobildonna spagnola. A ventitre anni, dopo l’assassinio del marito, per sopravvivere si prostituisce in uno squallido bordello nel Borgo Sant’Antonio “benchè per mercè la sua moglie di poi la morte di esso fu cercata e spoliata di quanto havea et non avendo come campare si pose al vordello et, quello che più importa molto, venevano da lei molti spagnuoli a darle la burla, da poi haverla goduta li facevano molti mancamenti … Una moglie di Capitan Generale, che mai contradisse la Corona, commare di S.E. il quale più volte l’aveva onorato in palagio con la signora Viceregina non ponerla dentro un monastero, o darla qualche cosa da accasarla. Così passò il negotio fatta meretrice publica al comando di tutti, vista da me al vortello, con molta meraviglia e scandalo dei contemplativi” narra con pietà un cronista dell’epoca.
La morte per peste misericordiosamente porrà fine alle sue sofferenze otto anni dopo.
Un problema di ordine pubblico
La presenza delle meretrici e dei loro sfruttatori definiti all’epoca gualani, lenoni, ricottari, griffoni, beccaccini di carne umana era vivamente osteggiata dai cittadini che avanzano continue petizioni alle autorità chiedendone l’espulsione dalla città. Nel 1503 si invia una supplica a Ferdinando il Cattolico “…Considerato ancora che per causa de le meretrici et dishoneste femine so in questa città molti ruffiani, citatini et forestieri, se supplica però Vostra Cath.Ma. che se digne ordinare et comandare al Regente de la Gran Corte dela Vicaria, li debia cacciare, perseguitare et punire, et non permetta per respecto, ne causa alcuna, sia alcuno ruffiano in dicta cità, et ad majora efficacia Vostra Catho.Ma, per lo presente Capitulo conceda facultà ad li electi de dicta cità che possano revedere lo regente ad la executione contra li dicti ruffiani et ditto regente lo debba exeguire sub pena privationis officij”.
Si scrive nel 1567 della piazza dell’Olmo di Forcella “se tene casa de alloggiamento donde albergano pottane, marioli … si sbracano nelle finestre …, da le feneste de detto alloggiamento se li menano brutticie come pisciazza, broda et acqua fetente …” a un artigiano che aveva protestato “uno che si alloggiava in detta casa scese in detta strada e li donò una cortellata con struppio di un braccio“.
Quando in una casa di Santa Caterina di Portanova ritorna una prostituta di nome Speranza al processo un teste dichiara con straordinario realismo: “Have visto saglire multe persone in casa de la Speranza et serrare poi le sue finestre et doppo s’è visto li suoi innamorati sudati e Speranza scapillata …”
E ancora di una prostituta nel 1575 “Donna de mala condizione, male lenghe, scavezza cuollo, iniuratrice, che si dice male del terzo e del quarto et injuria de tutte sorte e tanto che in detta strata non ce se pote vivere ne habitare“.
È un continuo protestare. Gli abitanti di “Santa Maria Donna Regina in le pertinentie de Capuana” nel giugno 1567 si lagnano di “studenti calavrisi et pottane immamicate et altre vecchie quali fanno offigio de roffiane et conducono de mezio giorno altre puttane con le seggie in detta strada ad detti studenti …”.
Una vita umiliante
Le prostitute che nelle ricorrenti ondate di moralità erano arrestate dagli sbirri, chiamati “tammari” dal popolino, erano condannate alla reclusione e a pene crudeli e umilianti come la fustigazione, il marchio a fuoco, il cavalcare un asino per le vie più affollate.
Dal 1600 fu istituito per loro presso il carcere della Vicaria la Casa della Penitenza, “alle quali si taglino i capelli per mortificazione; e si faccia vestire una veste di lana; non permettendo a quelle parlare con niuno, detenendole con molta strettezza e riconoscimento, e con ubbidienza a chi le governa, senza perdersi il rispetto; acciocchè vengano in conoscimento di Dio, e cerchino misericordia e perdono delle loro colpe, …”.
I bandi riguardano non solo le meretrici ma anche i loro sfruttatori. “Si ordina e comanda a tutti i Ruffiani, che tengono donne da partito di qualsivoglia Nazione si siano, che fra il termine di dieci dì dopo l’emissione e pubblicazione del presente Bando in avanti computando si debbano partire ed uscire da questa città di Napoli e questo Regno, ed in quello non tornare senza espressa licenza di Sua Maestà seu di detto Illustre signor viceré, alla pena di essere posti in galea ed in quella stare ad arbitrio di detta Maestà ovvero di detto Illustre viceré. E le dette i meretrici seu donne da partito non osino ne presumano per qualsivoglia modo publico né secreto tenere Ruffiani, né a quei sovvenire né sostentare sub poena di esser vituperosamente frustate per Napoli o altro luogo di questo Regno dove si troveranno e d’esser perpetuamente scacciate da detto Regno e bollate in fronte. Datum Neap: In Castronuovo die 29 Junii 1507”.
Tra la prostituta e lo sfruttatore
La connessione esistente tra la prostituta e il suo sfruttatore viene illustrata con molto realismo da un personaggio di Masuccio Salernitano: la Marchesa, prostituta dei primi anni del Cinquecento “Sono col mio caro omo in tal termine che di me non oso far quel che io vorrei: imperocchè essendo lui un gagliardo giovine ricco, amato e molto favorito in questa città non dubito che vedendosi di me privo poneria mille vite in periglio per avermi e doppo, per suo onore, guastarmi nella persona …”, e quel “guastarmi nella persona” era la migliore descrizione del rapporto esistente tra la donna e il suo “caro omo”.
Sembra inutile ricordare che il “mestiere più antico del mondo” non fu mai estirpato.
-Emilio Bonaiti