Filippo Cifariello fu un noto scultore italiano, pugliese d’origine, che trascorse buona parte della sua vita e i suoi ultimi istanti a Napoli, peraltro fu tra i primi residenti del nuovo Rione Vomero. La sua vita fu molto tormentata, caratterizzata da un carattere difficile, una moltitudine di eventi infelici e da una salute mentale precaria, che lo fece macchiare dell’omicidio di sua moglie e che lo avrebbe portato alla morte, anni dopo.
Le umili origini ed il successo
Filippo Cifariello nacque nel 1864, poco dopo l’Unità d’Italia, a Molfetta. Era figlio di Ferdinando Cifariello, cantante pugliese, che finì in miseria quando suo figlio primogenito era ancora molto giovane. La necessità di denaro fece emergere rapidamente la vena artistica del giovane Filippo, che iniziò la propria esperienza con la scultura attraverso il modellamento di piccoli busti in creta, che gli valsero la possibilità di proseguire la propria formazione artistica, accedendo all’Accademia di belle arti di Napoli, dove ebbe occasione di conoscere altri artisti napoletani di primo piano, quali Gioacchino Toma, Achille d’Orsi e Vincenzo Gemito.
Terminata l’esperienza in accademia, la sua carriera prese piede rapidamente, trovandosi presto ad organizzare esposizioni delle proprie sculture “veriste” e ricevendo anche dei premi. Nel 1889, le sue opere furono ospitate presso l’Esposizione Universale di Parigi. Nel 1890, partecipò all’Esposizione di Roma e el 1899 espose la sua arte anche presso la Biennale di Venezia e ricevette, successivamente, un’ importante onorificenza dal re Umberto I: l’Ordine della corona d’Italia.
Nel corso della sua carriera, in particolare tra la fine dell’ ‘800 e l’inizio del ‘900, fu autore di molte sculture, sia di carattere monumentale, come la statua dedicata ad Umberto I a Bari, sia per collezioni private, spiccando nell’ambito della ritrattistica. Continuò a scolpire per tutta la sua vita.
Fu professore onorario dell’Accademia di belle arti e ricevette onorificenze internazionali, come l’Ordine di Francesco Giuseppe d’Asburgo e il titolo di Ufficiale della Corona di Russia. Nel 1931 scrisse un’autobiografia, “Tre vite in una“.
Oggi, molte delle sue opere sono ospitate in musei e prestigiose collezioni private.
Il declino e la morte
Durante l’ultimo decennio del XIX secolo visse a Roma e proprio lì conobbe la cantante francese Maria de Browne, di cui si infatuò. Sarebbe diventata la sua prima moglie, nel 1894. Tra i due ci fu un rapporto molto complicato, alternando fasi di attrazione reciproca a fasi di disinteresse e sul quale infieriva anche la carriera dei due sposi: lui, uno sculture oramai noto anche oltre i confini italiani e quindi molto impegnato, lei una cantante di discreto successo, che, per lavoro, stava spesso lontana dal marito.
In un primo momento, i due si trasferirono in una piccola città della Baviera, dove Filippo Cifariello aveva ottenuto un lavoro in una fabbrica di ceramica. Maria de Browne, invece, continuò i suoi incarichi a Roma e all’estero. I due stettero lontani per circa un anno, al termine del quale Filippo tornò a vivere a Roma. La coppia era sempre meno affiatata, fino a che non presero le distanze in definitiva, nel 1905.
Un mattina di agosto di quello stesso anno,Cifariello, che aveva preso una stanza in una pensione di Posillipo per dei lavori da eseguire a Napoli, incontrò, inaspettatamente, sua moglie Maria, in compagnia di un noto avvocato napoletano, uscito dalla stessa stanza di lei. Dopo un litigio con la donna della quale era ancora innamorato, lo scultore era furibondo.
Quello stesso giorno, dopo un momento di apparente calma, al seguito del litigio, l’instabilità di Filippo Cifariello si manifestò nella peggiore maniera: prese una pistola che portava con sè e sparò ripetutamente a sua moglie, togliendole la vita.
L’evento risultò di primo piano per molto tempo sui giornali dell’epoca. Cifariello avrebbe dovuto subire un processo per l’omicidio di cui si era macchiato, così decise di non badare a spese e scelse per la sua difesa un illustre avvocato napoletano, il grande oratore Gaetano Manfredi (a cui oggi è dedicata una via a Capodimonte).
Manfredi riuscì a far scagionare il suo assistito, facendo leva anche sull’opinione pubblica dell’epoca, che arrivò a considerare l’assassino una vittima, descrivendo Maria de Browne come una donna che era assidua al tradimento e Cifariello come un pover uomo sofferente, dal cuore spezzato: nel 1908, grazie ad una giuria completamente convinta dal brillante avvocato, la sentenza si espresse a favore dell’artista, poichè giudicato mentalmente malato, così fu assolto dal crimine commesso.
Lo stesso Ferdinando Russo scrisse sul giornale “Il Mattino” un articolo a suo favore.
Ma quella non fu l’ultimo amore, nè l’ultima morte di una persona cara a Filippo Cifariello: l’artista, infatti, si risposò, nel 1914, con una donna molto più giovane di lui, Evelina Fabi, con cui si trasferì in una casa al Vomero e che morì poco dopo il matrimonio, per un incidente domestico con un fornello che le fece riportare delle gravi ustioni.
Il terzo ed ultimo matrimonio dello sventurato Cifariello, datato 1928, fu con Anna Maria Marzell, una donna tedesca, dalla quale ebbe due figli, Filippo e Antonio. Risultò più stabile e duraturo dei precedenti due, tuttavia la salute mentale di Filippo Cifariello diventava sempre più precaria, facendolo cadere in una profonda depressione, che culminò con il suicidio, avvenuto nel luogo più caro all’artista, il suo studio di via Francesco Solimena, al Vomero, nel 1936.
La scia di morte che perseguitava l’artista, tuttavia, non si fermò lì: anche suo figlio Antonio, attore, perse la vita molto giovane, a soli 38 anni, al seguito di un incidente aereo durante un viaggio in Africa. Perfino il suo avvocato, Gaetano Manfredi, morì prematuramente: si suicidò durante un viaggio in treno, a 63 anni.
A Filippo Cifariello è oggi dedicata una via presso il quartiere Vomero, dove ha lavorato per anni alla sua arte.
-Leonardo Quagliuolo
Sitografia e bibliografia:
“Le nuove strade di Napoli” di Gianni Infusino
“Filippo Cifariello: storia di un assassino” di Antonietta Ferrante
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