Perchè a Napoli la fede vince anche la morte!
Vi siete mai chiesti, perché i Martiri d’Otranto riposino proprio a Napoli? Chi li portò fin qui? Vi dice nulla il nome di Caterina d’Alessandria? Veramente San Gennaro riuscì a fermare la lava del Vesuvio con una mano?
Dall’Antico Egitto alle Coste Salentine, dal Colle Minerva fino a raggiungere Piazza Enrico De Nicola. Un viaggio lungo ben 1400 anni di Storia, attraverso cui vi sveleremo storie incredibili, misteri ancora irrisolti, uomini e donne dall’infinito coraggio disposti a tutto! Uno scenario vastissimo, costellato da racconti tanto lontani quanto vicini, tanto diversi quanto simili. Dove tutto questo? Nella magnifica Chiesa di Santa Caterina a Formilello.
Ma cominciamo dall’inizio, e immaginate di ritrovarvi in Puglia, sul finir del XV Secolo.
Era il 1480, il 28 luglio 1480 più precisamente, quando Otranto all’improvviso fu svegliata di soprassalto. All’alba di quel giorno, infatti, un’imponente flotta turca, composta da 18000 uomini e guidata dal generale Gedik Ahmet Pascià, giunse minacciosa presso le coste salentine. Un solo e unico obbiettivo, il loro: conquistare la città ed espandere la supremazia e la fede ottomana in Italia!
Fu cosi che, terrorizzati dall’imminente pericolo, i cittadini, per lo più artigiani, contadini e pescatori, abbandonarono presto il borgo, permettendo ai Turchi di entrare in città e distruggere qualsiasi cosa incrociasse il loro cammino. L’assedio si concluse il 12 agosto con una conta finale di 12000 uomini barbaramente uccisi, 5000 ridotti in schiavitù e solo 800 sopravvissuti. L’armata turca costrinse questi ultimi ad una scelta: rinnegare la propria fede cristiana o morire decapitati. Tutti avevano una gran fede e infatti giurarono fedeltà a Cristo per l’ultima volta; fu cosi che Gedik Pascià, senza pietà, li condusse, cinquanta per volta, presso il Colle Minerva, decretando inevitabilmente la decapitazione degli ultimi 813 uomini ancora in vita.
Secondo le cronache, durante quel massacro, il coraggio mostrato dagli Otrantini fu tale che un turco, un certo Bersabei, trovò la fede nel vedere il modo in cui questi morivano per la loro fede; anche lui subì il cruento martirio, impalato dai suoi stessi compagni d’arme.
Si racconta che i loro corpi rimasero insepolti per un anno intero, fino al 15 agosto 1481, quando la città fu finalmente ricristianizzata; e così, grazie all’intervento del Duca di Calabria, Alfonso II d’Aragona, i corpi furono portati a Napoli, dove il re Federico d’Aragona diede loro degna sepoltura, presso quella che un tempo era la Chiesa della Maddalena, e rinominata per l’occasione “Santa Maria dei Martiri.
Sette secoli di Storia non sono stati sufficienti a cancellare il ricordo di quel terribile evento; ancora oggi, centinai di fedeli napoletani vegliano ogni giorno sulle 240 reliquie dei Martiri otrantini, custodite sotto l’altare di una delle dieci cappelle laterali più belle della Chiesa; un ambiente finemente decorato con marmi policromi e due affreschi del pittore toscano Luigi Garzi. Lo stesso autore, inoltre, si rese protagonista di un magnifico affresco del 1695, raffigurante proprio il martirio di Santa Caterina, che tutt’ora ricopre l’intera controfacciata.
La Chiesa attualmente è conosciuta con il nome di “Santa Caterina a Formiello”, situata in Piazza Enrico De Nicola, a due passi da Porta Capuana. Essa sorge su di una precedente e più piccola chiesa, sempre dedicata a Santa Caterina e costruita sul finire del Quattrocento per volere dei Frati Celestini. Il nome “a formiello“, dal latino “ad formis” ossia “presso i canali”,le è dovuto dal fatto che in passato, nei suoi pressi penetrava in città l’antico acquedotto della Bolla, acquedotto che fu poi totalmente sostituito verso la fine del XIX secolo dall’attuale in uso, quello di Serino.
La costruzione della nuova Chiesa, avvenne agli inizi del Cinquecento, grazie al progetto di Antonio Fiorentino della Cava ed eseguito poi dall’architetto Romolo Balsimelli. Al finanziamento dei lavori contribuirono diverse famiglie nobiliari della città, tra le quali gli Acuaviva d’Atri, i Sanseverino di Bisignano e, soprattutto, la famiglia Spinelli di Cariati, ai quali verrà concesso una bellissima cappella nella zona presbiteriale, in cui sono disposti ben sei monumenti sepolcrali dedicati alla famiglia. Tantissimi eccellenti artisti lasciarono la propria firma in questo luogo: Francesco Antonio Picchiatti, autore del portale marmoreo principale, ornato con una statua della santa; Guglielmo Borremans, autore di affreschi quali “Storie di San Domenico” e “La gloria di San Domenico”; o ancora Paolo de Matteis e Giacomo del Po.
Ma chi fu realmente Caterina d’Alessandria? E che cosa spinse i Napoletani nel provare un amore cosi profondo per questa santa?
Correva l’anno 305d.C., quando improvvisamente la città d’Alessandria fu colta dall’arrivo di un gran numero di funzionari romani guidati dal governatore Massimo Daia, da poco nominato nuovo Cesare d’Oriente. Conferitogli questo nobilissimo titolo, Massimo si rese presto protagonista di sontuosi festeggiamenti e cruenti riti pagani ai quali tutti i cittadini erano obbligati a prendervi parte. Un ordine, quello del governatore, al quale Caterina, una bellissima fanciulla egiziana, vi si oppose con tutte le sue forze. La ragazza, non solo non rispettò il volere del potere romano, ma con la sua raffinata eloquenza, convertì al Cristianesimo anche un folto gruppo di fedelissimi di Massimo. Fortemente adirato, quest’ultimo, lo divenne ancor di più, dopo che la bellissima Caterina rifiutò di diventare sua moglie. A quel punto, Il triste destino della giovane era ormai segnato e impossibile da evitare: fu condannata al martirio sulla croce uncinata e in seguito decapitata.
Naturalmente, nella Chiesa non poteva mancare una cappella a lei dedicata, l’ultima sul lato sinistro; un gioiello interamente affrescato da Giacomo del Po, autore stesso nel 1741 del ciclo di affreschi sulla volta, con la “Madonna col Bambino e angeli”, “Santa Caterina che rifiuta di sacrificare agli idoli” e “La santa che disputa con i savi”. In questo ambiente, cosi come in tutta la Chiesa, sono riportati sia simboli domenicani, sia simboli che richiamano la vita di santa Caterina d’Alessandria, quali, ad esempio, una spada, una ruota uncinata spezzata e una testa mozza coronata; il pavimento, inoltre, è invece decorato con maioliche del Cinquecento.
Innumerevoli furono i volti legati alla fede di questa Chiesa, e ricordati ciascuno, nella propria cappella.
La prima che si incontra, lungo il lato sinistro, è quella dedicata alla famiglia Tocco; un’attribuzione certa, testimoniata dallo stemma nobiliare della famiglia lombarda, posto sul pavimento maiolicato, e dalla data incisa sopra, recante l’anno 1554. La cappella è anche chiamata “degli Innocenti” perché al suo interno era custodita la tavola quattrocentesca di Matteo di Giovanni della Strade degli “Innocenti”, oggi conservata al Museo Nazionale di Capodimonte..
Nella cappella successiva, invece, è ricordata la figura di Vincenzo Maria Orsini, vescovo di Benevento nel 1686, e divenuto poi papa nel 1724 con il nome di Benedetto XIII. Così forte fu il legame di fede tra Orsini e il convento, che diverse sale erano destinate unicamente ad ospitare il vescovo durante i suoi soggiorni a Napoli. Oltre alle reliquie di San Vincenzo martire, San Eliodoro martire e sant’Innocenzo martire, nella cappella, ornata nella volta con stucchi in stile barocco napoletano, è presente un dipinto del 1732 di Antonio Gamba, “Papa Benedetto XIII tra i santi domenicani”.
Non solo figure partenopee, ma anche straniere: è il caso della famiglia De Sylva, a cui è dedicata la terza cappella e intitolata a san Giacomo. La targa tombale, datata 1536, posta sul pavimento, certifica l’attribuzione della cappella alla famiglia portoghese, di cui un successivo esponente, Vincenzo Maria, vescovo di Calvi, si occupò nel 1698 dei lavori di abbellimento all’ambiente. Nella cappella sono conservati anche monumenti funebri di una famiglia patrizia napoletana e una pittura del 1586 di Francesco Curia.
La volta, poi, è maestosamente decorata dagli affreschi sempre di Luigi Garza con “Le Nozze mistiche di santa Caterina” e di Paolo de Matteis con la “Trinità” e la “Discesa dello Spirito Santo su san Filippo”.
In un luogo cosi affascinante e pieno di fede, non poteva certamente mancare la presenza del santo più importante della città: San Gennaro. A lui, infatti, è dedicata una bellissima edicola, da poco restaurata, posta sul sagrato della Chiesa. L’opera fu voluta dalla Deputazione del Tesoro di San Gennaro, progettata da Francesco Antonio Picchiatti nel 1706 e realizzata un anno dopo da Lorenzo e Domenico Vaccaro. Si decise di posizionare il busto del santo proprio in quest’area, in seguito ad una violenta eruzione del Vesuvio nel 1631, durante la quale San Gennaro si rese protagonista di un miracolo: si racconta, infatti, che il Patrono fosse riuscito a fermare il flusso della lava incandescente con una sola mano all’altezza del Ponte della Maddalena, evitando una terribile catastrofe per tutto il popolo napoletano e non solo. Ed è per questo motivo, che, in ricordo di quel prodigioso salvataggio, gli occhi e le mani del santo, tutt’oggi, sono orientati verso il Vesuvio.
Osservando bene il busto, si può notare come San Gennaro sia privo di una mano, e anche questo interessante particolare è spiegato attraverso una leggenda: si narra, infatti, che un un giorno, un giovane della zona si fosse recato presso il monumento ed avesse iniziato a maledire il Santo con ingiurie e bestemmie, portandosi al di sotto della statua. In risposta a tale atteggiamento blasfemo, la mano, oggi mancante della statua, si staccò e cadde sulla bocca del bestemmiatore, mettendolo a tacere. Il racconto evidenzia un aspetto fondamentale della credenza popolare: che la statua di San Gennaro ascolti e veda tutti quelli che si rechino presso di lui, e che soprattutto risponda a tutti questa.
Di:Andrea Andolfi
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