Nel 1704, come si usava presso la corte spagnola, fu disposto che dal mezzogiorno del Giovedì Santo sino allo scioglimento della Gloria del sabato mattina non dovessero circolar veicoli e cavalli per tutta la città di Napoli. Il precetto era destinato a cadere nel vuoto tanto che a poco a poco le strade da interdire diminuirono fino a quando non restò la sola via Toledo dove il popolo, vestito bene, camminava adagio facendo lo “struscio”. Tutti i bravi napoletani, strusciando da una parte all’altra della città, entravano nelle chiese per ammirare i “sepolcri”: i catafalchi allestiti per rappresentare la morte di Cristo. Soddisfatti dei riti religiosi e di quelli mondani, una volta tornati a casa, si assolveva ai doveri gastronomici. Pasqua non sarebbe Pasqua se sulla mensa napoletana mancassero: «’a menestrella ‘mmaretata cu ‘a gallenella, ‘a ‘nnoglia e ‘e saciccielle, ‘ll’ainìello a ‘o fumo, ‘o ppoco ‘e spezzatiello, ‘a felluccia ‘e ricotta e ‘e supressate. Quatt’ova toste, na comm ‘e nzalata, na carcioffola e ‘o fiasco ‘e maraniello: po’ se sape, ‘a pastiera e ‘o casatiello».
La storia del casatiello/tortano
Il casatiello – anche considerata la sua forma tondeggiante – è la corona della tavola pasquale napoletana da almeno cinque secoli se è vero come è vero che lo nominava già il sommo Giambattista Basile nel suo ”Lo cunto de li cunti” (il Pentamerone) edito nel 1634. Il casatiello è una tradizionale ciambella che può essere tanto dolce quanto rustica. Il termine viene dal latino “caseum” (cacio, formaggio) corrotto in caso e ridotto a vezzeggiativo riferendosi all’abbondante presenza di pecorino al suo interno: formaggio fatto del latte di pecora di cui si nutre l’agnello che è creatura pura ed innocente nella simbologia cristiana. La definizione viene sancita nel “Vocabolario Napolitano-Italiano” del 1873 nel quale lo studioso Raffaele D’Ambra lo identifica come un pane condito con sugna, o strutto, e pepe, avvolto in forma di grossa ciambella, con uova intere, mezzo incavate nell’impasto e ricoperte in cima da fettucce sistemate a croce. Assomiglia al tortano – altra ciambella salata il cui nome viene dal latino “tortilis” (torto, ritorto, ricurvo) e “anus” (cerchio) – ma su questo i gastronomi e gli autori della patristica culinaria napoletana si accapigliano e si disperano: alcuni ritengono il casatiello una variante del tortano, altri, invece, ne negano la consanguineità. Jeanne Carola Francescona lo apparenta e con lei Vittorio Gleijeses, Raffaele Bracale ne disconosce la familiarità. Di sicuro è vero che le paste che formano l’involucro del tortano e del casatiello sono molto simili. Simili gli ingredienti: farina, lievito, tanta sugna, sale e tantissimo pepe, ma, fatta salva la forma e dunque l’apparenza, il casatiello rustico si differenzia dal tortano, per la mancanza di molti ingredienti nella composizione della farcia che nella versione rustica è essenzialmente composta di formaggi mentre nel tortano presuppone, oltre ai cubetti di formaggio, i ciccioli di maiale, il salame con le uova sode tagliate a spicchi, uova che, invece, nel casatiello rustico si ritrovano crude e col guscio e sono infisse nella pasta. Nel casatiello la forma si ottiene avvolgendo gli ingredienti nell’impasto mentre la forma a ciambella del tortano nasce da più cordoni di pasta attorcigliati tra di loro per simboleggiare la corona di spine indossata da Gesù in croce e quindi la sua passione. Un’altra differenza sta nel tipo di lievitazione che è molto più lunga nel tortano, mentre nel casatiello è molto breve di modo che alla fine della preparazione il casatiello si presenti poco lievitato e quasi indigesto tanto che a Napoli, di una persona dal carattere duro ed insopportabile, s’usa dire con disprezzo: «è proprio ‘nu casatiello cu ‘e passe!».
La presenza delle uova intere riecheggia in pieno la simbologia pagana che vede nella sua forma la fertilità e l’eterno ritorno della vita. Nel mutare dei tempi e non dei segni l’uovo col cristianesimo prende a simboleggiare la resurrezione: la tomba nella quale è contenuta – intera – la vita che presto rinascerà. L’uovo è un simbolo molto caro alla città di Napoli come dimostra la vecchia leggenda dell’uovo di Virgilio mago posto nelle fondamenta dell’omonimo Castel dell’Ovo.
Dall’inizio del Novecento esiste anche il casatiello dolce, diffuso soprattutto nel casertano, dove è chiamato “palomma” o “pigna”, e nell’area della costa e dell’entroterra vesuviano. Questo dolce presuppone un impasto soffice realizzato sia con lievito madre che senza “criscito”, ricoperto da una glassa di zucchero e zuccherini, i famosi “diavulilli”, e piccole uova di cioccolato.
Tanto raccontato, non ci resta che aspettare che si sciolgano le campane, risorga il Signore e cominci la festa: «E, venuto lo juorno destenato, oh bene mio: che mazzecatorio e che bazzara che se facette! Da dove vennero tante pastiere e casatielle? Dove li sottestate e le porpette? Dove li maccarune e graviuole? Tanto che ‘nce poteva!»
Alessandro Basso
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