Le auto ibride sono un’invenzione recente? Assolutamente no. Erano già conosciute più di un secolo fa ed anche Napoli compare, con una piccola avventura, fra i pionieri della mobilità moderna: nel 1908, infatti, la De Luca Daimler presentò proprio in città il suo primo prototipo di “Auto Mista“, un’auto con motore elettrico e termico.
Nonostante la fiducia illimitata verso l’elettricità che c’era già un secolo fa, i tempi non erano ancora pronti per automobili con batterie efficienti e facili da caricare. Per giunta anche la Daimler inglese, con la quale l’officina De Luca aveva accordi, si mise di traverso venendo meno ai contratti. E così, con una bancarotta, fallì l’esperimento della casa automobilistica napoletana.
Una città che amava l’automobile
Di eccellenze automobilistiche a Napoli se ne parla poco. Eppure ad inizio XX secolo, mentre Torino si era già consacrata capitale italiana dell’automobile, all’ombra del Vesuvio nacque una vivace esperienza automobilistica fatta di ingegneri sperimentatori, incidenti stradali e imprenditori spregiudicati.
Non è un caso infatti che da Sant’Antimo partì un giovane Nicola Romeo alla volta di Milano, dando alla luce l’Alfa Romeo.
Nei primi anni del ‘900, Napoli era una città in pieno fermento culturale e molto attenta alle nuove tecnologie: furono questi presupposti a portare un’intera generazione di ventenni e trentenni a darsi alla sperimentazione delle nuove possibilità regalate dalla scienza del XX secolo. Così, mentre Gustavo Lombardo fondava la prima casa cinematografica al Vomero, fra Via Marina e la periferia a nord di Napoli nascevano le prime (e uniche) 5 case automobilistiche di Napoli: Società Napoletana Automobili; Hermes; Lo Cascio; Incontri e, nel 1906, la De Luca-Daimler.
Alle origini della De Luca Daimler
Carmine De Luca era proprietario di una piccola fonderia che aprì la prima sede intorno alla metà dell’800. Era un artigiano eccezionale conosciuto in tutta la città per la precisione “svizzera” dei suoi lavori. Addirittura si racconta che nel 1870 una nave inglese rimase bloccata nel porto di Napoli per la rottura di un componente del motore che, ovviamente, era protetto da brevetto ed era irre: bisognava ordinarla direttamente a Cardiff, lasciando fermi i marinai per chissà quante settimane.
Al capitano fu consigliato di rivolgersi al signor De Luca che, una volta osservato il pezzo rotto, lo replicò alla perfezione e permise alla nave di ripartire, fra lo stupore di tutti i tecnici sulla nave.
L’officina De Luca, dopo l’Unità, decise infatti di specializzarsi nella produzione di prodotti navali ed ebbe stretti rapporti con la marina militare italiana. Per l’ingegneria civile, invece, cominciò a dedicarsi ai telai delle carrozze.
L’invenzione del siluro
Il mondo stava per prepararsi alla Grande Guerra e le nuove tecnologie cominciavano a correre più di quanto l’uomo potesse immaginare: si passò in cinquant’anni dai vascelli alle navi a motore; dalle carrozze alle automobili.
Così, dopo l’invenzione del siluro nel 1868 da parte di Roberto Whitehead, l’officina De Luca riuscì ad ottenere la patente per la produzione in Italia di mine e siluri per la Marina, data anche la vicinanza con i cantieri di Castellammare di Stabia.
L’avventura nell’automobilismo di Vincenzo De Luca
Giunse il XX secolo e Carmine De Luca apparteneva ormai a un mondo antico, ma il suo mestiere non conosceva crisi. L’industria militare andava bene all’inizio del ‘900 (e chissà che avrebbe detto, se avesse potuto vedere la Grande Guerra!) e le sue fonderie producevano siluri e mine in ottima quantità e con eccellenti commissioni.
Il figlio, Vincenzo De Luca (non legato al governatore della Campania, che è di origini lucane), era però di tutt’altro avviso: come tutti i giovani amava l’innovazione, si entusiasmava davanti alla tecnologia e già sognava di poter cambiare il secolo con l’impresa di famiglia. “La guerra è cosa del secolo passato“, diceva lui. Le ultime parole famose.
A Napoli circolavano pochissime auto, ma i pochi motori facevano parlare di sé e i due eredi del buon Carmine volevano essere ricordati fra i pionieri dell’automobile. Il giovane Vincenzo strinse un accordo con la Daimler Inglese, costola della casa automobilistica tedesca, per la fornitura di motori da rivendere in Italia. L’azienda napoletana, invece, avrebbe fornito alla Daimler i telai delle automobili da commercializzare in Gran Bretagna: un accordo ricchissimo.
I fratelli erano due innovatori. Investirono ingenti risorse economiche per lo studio e sviluppo di un prototipo di automobile ibrida, con motore elettrico e termico, che fu presentata nel 1908. Aveva un motore elettrico dalla velocità massima di 30km/h e uno termico di 6600 cm3 di cilindrata con velocità massima di 85km/h. Il motore elettrico aveva una autonomia di 10 ore, poi andava ricaricato durante il viaggio con il motore a benzina.
Il tradimento inglese
Nei primi anni gli affari andarono alla grande. La De Luca-Daimler produceva auto di lusso, ma decise comunque di partecipare alla Targa Florio, la gara automobilistica italiana più prestigiosa assieme al Giro d’Italia.
L’azienda fece un piano di espansione ardito: nel 1908 aprì un immenso stabilimento a Poggioreale che contava 75 operai specializzati e 1000 dipendenti complessivi, oltre ad una collaborazione con la carrozzeria napoletana Bottazzi, che curava l’estetica dell’automobile. Numeri da capogiro per il settore automobilistico dell’epoca.
Poi arrivò la crisi del settore automobilistico del 1909 e la Daimler inglese, in ottica di ridimensionamento industriale, decise di troncare alcuni contratti stranieri per spostare le produzioni in Inghilterra. Fra i tagli finì anche l’accordo con la De Luca, che improvvisamente non fu più pagata per i telai già venduti. Come se non bastasse, gli inglesi decisero di non ritirare più i telai napoletani in fase di realizzazione, lasciando un’immensa produzione a marcire nei magazzini di Poggioreale.
L’azienda napoletana si schiantò a piena velocità contro un muro: telai invenduti, motori che non arrivavano più dall’Inghilterra, stipendi da pagare, un mercato italiano in contrazione sul quale era impossibile piazzare la produzione. Arrivò il fallimento.
Come se non bastasse, poco dopo cominciò la Prima Guerra Mondiale. Chissà che avrebbe detto il buon vecchio Carmine, se avesse potuto scoprire che i suoi figli non producevano più siluri!
La fine di un’avventura napoletana
Oggi le fabbriche automobilistiche di origine napoletana non esistono più ed i pochi impianti produttivi rimanenti in Campania non sono di marchi locali. Durante il secolo passato Napoli perse infatti il suo tessuto industriale, ma lo spirito creativo e d’innovazione è rimasto intatto: non è un caso se fra i nomi dei progettisti ed i consigli di amministrazione di tante case automobilistiche mondiali ci sono eccellenti ingegneri napoletani.
-Federico Quagliuolo
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Riferimenti:
Automobili e violini: storia di una famiglia napoletana d’altri tempi, Pasquale Fernando Giuliani Mazzei, 2000
https://www.coachbuild.com/forum/viewforum.php?f=908&sid=9f904f1664f61b6d2c1194b569d56275
https://www.autosanclassic.de/de/ratgeber/glossar_begriffserklaerungen/alles_daimler.htm
http://www.senato.it/japp/bgt/showdoc/frame.jsp?tipodoc=Ddlpres&leg=14&id=00026312&part=doc_dc-relpres_r&parse=si