La Villa di Poggioreale oggi non esiste più, eppure fu sede di re e personaggi illustrissimi che diedero alla zona un passato grandioso caduto nell’oblio.
Per penetrare l’anima dei luoghi non è sufficiente guardarli scegliendo un punto di vista privilegiato, a meno che questo non contempli anche la dimensione del tempo. Osservare un fenomeno in prospettiva significa cogliere le sue evoluzioni nel tempo e riconoscere nel presente i segni, le tracce, i solchi in cui volgere lo sguardo per appropriarci di una conoscenza reale e complessiva. Sembra essere questo il caso di Poggioreale, spesso riassunta nell’immaginario collettivo come un lembo estremo di città che sembra slabbrarsi verso Oriente in un luogo non ben definito dell’agglomerato urbano.
Eppure il suo nome dovrebbe farci riflettere; cosa avrà mai in comune un Poggio Reale con i camposanti, i quartieri di edilizia popolare e i capannoni industriali ormai in disuso che ricoprono oggi le pendici di quella collina dalla storia controversa?
Le origini: la costruzione della Villa di Poggioreale
E’ questa la storia di un lento ed altalenante declino che ha inizio nel 1487, anno in cui Giuliano da Maiano su volontà del Duca di Calabria, il futuro re Alfonso II, giunse a Napoli da Firenze con l’obiettivo di sottoporre il proprio progetto per una villa che avrebbe trasformato quel luogo lussureggiante e prevalentemente vergine in uno dei principali siti reali appena al di fuori del perimetro urbano.
Il corpo principale del complesso, che avrà particolare fortuna nelle successive rappresentazioni, si sviluppava su una pianta quadrangolare e presentava un carattere particolarmente severo, quasi difensivo, dato dalla presenza, in corrispondenza dei quattro vertici, di altrettante ali sporgenti dall’aspetto turriforme. Al centro la massa si dilatava, lasciando spazio ad un ampio cortile, posto ad una quota inferiore pari all’altezza di cinque gradini e all’occorrenza ricoperto da travi in legno o riempito d’acqua per gli spettacoli più scenografici.
L’edificio si affacciava su un giardino quadrato, mentre il cortile laterale ospitava tutti gli ambienti di servizio di pertinenza del corpo principale. Il parco circostante proseguiva seguendo uno sviluppo laterale ed includendo sia una peschiera che una loggia a doppia altezza mirabilmente ritratta in un’opera di Codazzi e Gargiulo del 1641 nel momento di massimo splendore del sito.
Tra le poche fonti iconografiche che hanno permesso una ricostruzione verosimile della Villa di Poggioreale e del suo intorno vi è senza dubbio lo schizzo di Baldassarre Peruzzi del 1523, che, seppur con un tratto rapido e sintetico, permette di individuare la conformazione ed i rapporti reciproci fra i principali elementi del complesso. Segue di qualche anno il disegno che Sebastiano Serlio inserisce nel 1540 nel suo trattato, a testimonianza di quanto l’opera fosse stata largamente riconosciuta come paradigmatica del rinnovato clima culturale napoletano.
Essa, infatti, si colloca nella letteratura dedicata come espressione dell’architettura rinascimentale, traducendo quella progressiva conversione della Napoli aragonese alle istanze di un Rinascimento che aveva ormai varcato i confini della sua culla toscana. Va tuttavia riconosciuto al lavoro del suo autore, al quale con grande probabilità si aggiunse in seguito alla sua morte il contributo di Francesco di Giorgio e di alcuni discepoli del da Maiano stesso, un valore autonomo, che interpreta in maniera indipendente il ruolo della committenza, delle preesistenze, del clima culturale locale e del contesto ambientale.
Il contesto ambientale
Lo studio delle prime cartografie e vedute relative alla città di Napoli lasciano infatti pensare che l’impianto irregolare della fabrica fosse dovuto alla presenza di diversi corsi d’acqua sia naturali che artificiali, tra cui numerosi canali di bonifica o alimentazione dei vicini mulini.
Si aggiunga a questi l’ingombrante e tutt’altro che irrilevante presenza dell’Acquedotto romano della Bolla, che percorreva per un tratto proprio i terreni rientranti nel perimetro del complesso. In alcuni documenti relativi al divieto di edificare latrine e luoghi di sepoltura nelle immediate circostanze del tracciato dell’Acquedotto, si faceva addirittura riferimento ad alcuni prelievi illeciti d’acqua dai condotti che avrebbero dovuto alimentare, invece, solo le fontane, i mulini e le peschiere del sito reale.
Alla luce di queste considerazioni, il progetto comprendeva un organismo complesso, che si componeva della villa propriamente detta e di vasti giardini che digradavano verso la città e il mare. Una strada, che partiva da Porta Capuana, collegava la villa suburbana alla città, terminando proprio in corrispondenza dell’ingresso al sito. Sarà poi il Duca di Alcalà a prolungarla fino a renderla una gradevole e particolarmente amata passeggiata nel corso del ‘600.
Il declino della Villa di Poggioreale
Il primo grande periodo di splendore della Villa di Poggioreale poté dirsi effettivamente concluso tra il 1495, anno in cui divenne temporaneo accampamento per le truppe francesi, e il 1522. In quel periodo furono infatti ceduti molti dei terreni che Alfonso aveva sì inglobato all’interno della propria tenuta, ma senza mai acquistarli realmente. Dopo una lunga serie di passaggi di proprietà il sito ritornò nelle mani della regia corte.
La descrizione che Carlo Celano fa del complesso in una delle sue cronache sul finir del XVII secolo restituisce l’immagine della villa e dei giardini in uno stato di totale abbandono. L’acqua, che aveva intrattenuto a lungo gli ospiti del luogo con i suoi virtuosi giochi aveva ormai smesso di irrorare le fontane dei giardini, l’arte topiaria cedeva il passo alla crescita incontrollata delle specie arboree del parco e gli affreschi ad immagini sempre più sbiadite. La capacità del Celano di ritratte perfettamente l’aspetto del complesso prima e dopo il suo periodo di decadenza rendono l’idea di quanto questo sia stato repentino e significativo.
Agli inizi del ‘700 sarà invece il re di Spagna ad interessarsi alle sorti della Villa e del suo intorno, donandola al Duca Campenale, che, tuttavia, fu tanto lontano dall’idea di restituire agli antichi splendori il sito quanto vicino a quella di trasformarla in un facile mezzo per rimpinguare le proprie tasche mediante la rendita fondiaria dei terreni.
Tra gli ultimi tentativi di ripristino della Villa e del parco, degno di nota è quello voluto da Carlo di Borbone, che, perfettamente in linea con il fitto programma di costruzione o ammodernamento di nuovi siti reali, volle predisporre a Poggioreale un sito dedicato all’arte venatoria attraverso la realizzazione di uno stagno popolato da uccelli acquatici. L’opera, al di là dello specifico valore ludico-ricreativo, avrebbe restituito una connessione di grande impatto paesaggistico tra la Villa ed il parco circostante.
Il complesso aragonese vedrà decadere definitivamente il proprio statuto sotto la spinta sempre più insistente di fattori che hanno sovvertito irrimediabilmente l’assetto ambientale dell’area. L’abbandono dei mulini, la graduale bonifica delle aree paludose, la costruzione dei primi impianti industriali proprio nell’area orientale della città, gli interventi sui corsi d’acqua, il loro parziale internamento e l’ampliamento delle zone destinate a camposanto hanno concorso a stravolgere l’aspetto e il notevole valore paesaggistico della collina di Poggioreale a tal punto da cancellare quasi del tutto le tracce del suo passato glorioso.
Sebbene in uno scritto del 1862 si facesse già riferimento ad alcune strutture ipogee rinvenute durante uno studio dell’epoca e attribuibili alle cantine della Villa, sarà Roberto Pane circa un secolo più tardi a ritrovare alcuni frammenti di lesene in pietra serena e ad identificare un portale in piperno come elemento annesso alla fabbrica durante uno dei suoi rimaneggiamenti, a memoria di uno splendore ormai lontano ed irrecuperabile.
-Daniele Nocera
Riferimenti: