Si può dire tutto di Gioacchino Murat, ma su una cosa concordano amici e nemici: era un uomo dal coraggio infinito e dalla passione per le imprese impossibili. Il proclama di Rimini del 1815 fu esattamente questo: una carica di cavalleria contro il mondo intero, con un solo desiderio: unire l’Italia partendo da Napoli.
Il contesto storico: Napoli divisa fra Napoleone e l’Austria
Nel 1814 l’avanzata di Napoleone era ormai crollata davanti all’Austria, alla Russia e all’Inghilterra, che riuscirono a fermarlo con epocali sconfitte e con un esilio sull’Isola d’Elba dell’uomo che aveva fatto inginocchiare l’Europa.
A Napoli Gioacchino Murat si trovava in una situazione difficilissima: mantenere il proprio trono dichiarandosi vassallo dell’Austria, come fece Ferdinando IV tempo addietro (e farà anche nel 1821, per finire l’esperienza del parlamento napoletano), oppure mantenere fino all’ultimo fedeltà.
Inizialmente tradì Napoleone, suo compagno d’arme e imperatore, nella speranza di poter salvare il trono di Napoli e continuare a reggere un regno al quale era affezionatissimo: decise quindi di accettare le proposte di alleanza dell’Austria. Poi ci ripensò: quando Napoleone tornò a Parigi, negli ultimi 100 giorni prima della disfatta di Waterloo, offrì tutto il supporto di Napoli all’imperatore dei francesi, anche davanti a una sconfitta certa. Murat non aveva dimenticato la gratitudine e la fedeltà che nutriva nei confronti del sovrano francese.
Quest’ennesimo cambio di alleanza fu la pietra tombale sulla sua vita e sulla sua corona.
Il Proclama di Rimini: un uomo solo contro il mondo intero
Gioacchino Murat era spacciato. Inglesi e Austriaci gliel’avrebbero fatta pagare cara mentre i Borbone di Napoli già stavano preparando le navi per lasciare Palermo e tornare trionfalmente nella capitale.
L’ormai ex sovrano di Napoli, senza nemmeno un posto in cui fuggire (e non sarebbe mai fuggito da nessuna parte) e senza alleati politici, decise di tentare allora un’impresa degna di Don Chisciotte: dichiarò guerra all’Europa intera, convinto di poter aizzare gli animi di tutto il popolo italiano, radunando un esercito di 100.000 uomini capace di sconfiggere l’Austria e unire l’Italia.
Invano adunque natura levò per voi le barriere delle Alpi? Vi cinse invano di barriere più insormontabili ancora la differenza dei linguaggi e dei costumi, l’invincibile antipatia de’ caratteri? No, no: sgombri dal suolo italico ogni dominio straniero! Padroni una volta del mondo, espiaste questa gloria perigliosa con venti secoli d’oppressioni e di stragi. Sia oggi vostra gloria di non avere più padroni. Ogni nazione deve contenersi nei limiti che le diè natura. Mari e monti inaccessibili, ecco i limiti vostri. Non aspirate mai ad oltrepassarli, ma respingetene lo straniero che li ha violati, se non si affretta di tornare ne’ suoi. Ottantamila Italiani degli Stati di Napoli marciano comandati dal loro re, e giurarono di non domandare riposo, se non dopo la liberazione d’Italia.
Fu così che, partendo con 40.000 uomini da Napoli, Murat guidò un’avanzata travolgente che conquistò prima Roma e poi la Toscana. Il popolo acclamava il generale francese in tutte le città, ma le sorti presto presto cambiarono.
I tempi di Garibaldi e delle guerre di indipendenza, però, erano ancora lontanissimi e Murat non aveva alcun supporto, come invece riuscirono cinquant’anni dopo ad ottenere i ministri degli “inetti re piemontesi”, come furono soprannominati dal generale francese. All’epoca del Proclama di Rimini, per giunta, l’eroe dei due mondi aveva appena 7 anni ed era un bambino irrequieto che scorrazzava fra le strade di Nizza.
Gioacchino Murat, accompagnato dai fidatissimi ufficiali napoletani Guglielmo Pepe e Pietro Colletta, era invece arrivato Emilia Romagna il 30 marzo 1815 e stava radunando attorno a sé un esercito fatto di tanti veterani, intellettuali e stranieri esaltati dal suo carisma. Il popolo del Nord Italia, però, pensava che Murat stesse cercando semplicemente di trovare un modo per riprendersi il trono di Napoli e poco si curarono dei suoi appelli. Alla fine della fiera, i soldati raccolti nel nord Italia dal carismatico generale francese non furono 100.000, ma solo 400.
Le cose stavano per volgere di male in peggio: fu prima sconfitto ad Occhibello, dalle parti di Rovigo, e poi fu ricacciato indietro fino alla disfatta di Tolentino del 3 maggio 1805. Nel frattempo anche Napoleone, dall’altro lato d’Europa, stava per conoscere la più epocale delle sconfitte a Waterloo.
L’avventura era davvero giunta al termine. Decimati, demoralizzati e ridotti a un gruppo di ribelli in eterna ritirata, i generali napoletani Michele Carrascosa e Pietro Colletta, il 20 maggio 1815, firmarono il trattato di Casalanza che pose fine alle ostilità e fece occupare Napoli dai battaglioni di Vienna, in attesa del ritorno di Ferdinando IV. Murat fuggì in Corsica ma, orgoglioso e sfrontato fino all’ultimo, non si diede ancora per vinto.
Un fatto più importante di quel che sembra
La vicenda del Proclama di Rimini fu tutt’altro che un evento bizzarro ed eroico di un uomo disperato: diede inizio al dibattito unitario in Italia.
Se infatti il popolo italiano ignorò l’assalto di Murat, non si può dire lo stesso nei salotti intellettuali d’Italia. Alessandro Manzoni rimase profondamente commosso dalla tragica vicenda e addirittura ne scrisse una canzone. Nelle riunioni massoniche e carbonare, invece, si cominciò a discutere dell’opportunità di poter organizzare un esercito per cacciar via gli austriaci. Mazzini cominciò a parlare della “scintilla“, quella che avrebbe dovuto aizzare il popolo italiano contro gli Austriaci nel modo in cui non era accaduto con Murat.
Il primo candidato al quale fu proposta la possibilità di organizzare un esercito per unificare l’Italia fu Ferdinando II di Borbone, sovrano che inizialmente era molto apprezzato dai carbonari italiani. Anche in quel caso l’Unità doveva partire da Napoli. Il re rifiutò e il resto della Storia fu scritta nel 1861.
E Gioacchino Murat?
Ormai senza eserciti, alleati e patria, ci provò un’ultima volta a tornare a Napoli. Era solo e, con l’ingenuità o l’incoscienza dei Fratelli Bandiera, sbarcò a Pizzo Calabro per far insorgere la Calabria assieme a 200 uomini fedelissimi e disperati quanto e più di lui.
Ad accoglierlo ci furono le truppe borboniche che catturarono il generale francese e, il 13 ottobre 1815 fu messo davanti a un plotone d’esecuzione, per essere fucilato come il peggior soldato insubordinato. Anche di fronte alle estreme conseguenze, però, lo spirito gagliardo di Murat non si tirò indietro. Le sue ultime parole furono: “Risparmiate il volto, mirate al cuore, fuoco!“.
Ambizioso, sognatore, sfrontato più di Ladislao di Durazzo, che provò anche lui a unificare l’Italia partendo da Napoli esattamente 400 anni prima, Murat riuscì a trasformare una morte umiliante da prigioniero nell’ultimo atto del copione di una tragedia personale degna degli antichi Greci.
-Federico Quagliuolo
Riferimenti:
Silvio De Majo, Biografie Napoletane, Belle Epoque Edizioni, Napoli, 2017
Enciclopedia Treccani
Gianpasquale Greco, Il Proclama di Rimini