La tomba di Enrico II Sanseverino costituisce uno dei più esimi e straordinari esempi della monumentalità funeraria di epoca angioina nel Vallo di Diano. E’ ubicata presso la pieve di Santa Maria Maggiore, a Teggiano, città cardine delle vicende storiche del medioevo cilentano che conserva ancora oggi, nei suoi monumenti così come nella sua facies urbanistica, fattezze molto simili a quelle del periodo medievale.
Committenza e autore
La committenza del monumento tombale è delle più illustri: si tratta della famiglia Sanseverino. Il nobile casato di origini normanne raggiunse proprio sotto il regno di Roberto d’Angiò uno degli apogei della sua storia, tramite un assiduo servizio alla corona (supportato ovviamente da una grande concretezza politica) ed oculate politiche matrimoniali. I domini feudali dei Sanseverino andavano a spaziare, tramite i vari rami della famiglia, dalla Terra di Lavoro, al Vallo di Diano, fino ad arrivare alla Basilicata.
Non si conosce con precisione quale membro del casato commissionò la tomba. Rispetto a tale informazione l’ipotesi più avvalorata è oggi quella del professore Arturo Didier, il quale sosteneva che la tomba di Enrico II Sanseverino fosse stata commissionata dal suo primogenito Tommaso III, impegnato in Toscana dal 1333 al 1337 per conto di Roberto d’Angiò. Il sepolcro sarebbe stato edificato dopo la morte di Enrico II, tradizionalmente ricondotta al 1314.
Tale ipotesi risulta avvalorata dall’iscrizione dedicatoria presente sul sarcofago: ANNO DOMINI MCCCXXXVI HIC TRANSLATVM EST MENSE NOVENBRIS IIII IND. CORPVS EXCELLENTISSIMI DNI DNI HERRICI DE /SAN / TO / SEV / ERIN / O O / LIM / COM / ITIS / MA / RSIC / I PR / IMO / GENI / TI / MA / GONI / REG / NI / SICI / LIE / COM / EST / ABI / LI / NORT / VI ST / A XXIII. Si apprende in tal modo che il corpo del Sanseverino fu traslato a Teggiano nel 1336.
La tomba di Enrico II Sanseverino fu realizzata dall’artista Tino da Camaino, importante scultore senese attestato nel regno di Napoli dal 1323 fino al 1337, data della sua morte. In tale periodo il suo operato artistico lo portò a lavorare principalmente con la famiglia reale di Napoli: fu autore del sepolcro di Caterina d’Austria in San Lorenzo Maggiore e di quello della regina Maria d’Ungheria in Santa Maria Donnaregina. Per la chiesa di Santa Chiara, negli ultimi anni della sua vita, realizzò i sepolcri di Carlo di Calabria e di Maria di Valois.
La foggia artistica del monumento e l’illustre autore portarono la tomba di Enrico II Sanseverino ad una certa attenzione della critica di settore, specialmente per quanto concerne le influenze artistiche ad essa legate e la possibilità che Tino di Camaino sia stato aiutato da collaboratori di bottega.
Molti studiosi hanno interpretato lo stile del monumento come dimostrazione di un cambiamento stilistico all’interno delle opere di Tino di Camaino, influenzato dalla tradizione del gotico francese portata a Napoli dalla corte angioina. Rispetto invece alla collaborazione da parte di altri autori facenti parte della sua bottega gli studiosi non sono oggi del tutto concordi. Il sarcofago con le raffigurazioni degli apostoli è unanimemente attribuito a Tino da Camaino.
Alcuni studiosi ritengono il gisant e la parte superiore della scultura attribuibili ad un altro autore, altri distinguono invece le due parti come frutto di due autori diversi. Seguendo tale ipotesi la tomba di Enrico II Sanseverino sarebbe frutto della collaborazione di Tino di Camaino e due aiutanti di bottega.
L’ideologia funeraria nella tomba di Enrico II Sanseverino
Per l’analisi dell’ideologia funeraria della tomba di Enrico II bisogna partire dall’assunto che la sua locazione odierna non è quella originaria. Nel 1857 un violento terremoto sconvolse la città di Teggiano, danneggiando gravemente gli interni della chiesa di santa Maria Maggiore di Diano, ove è custodita la tomba di Enrico II Sanseverino. Il monumento, fortemente danneggiato e privato del baldacchino che, con ogni probabilità, sovrastava la parte superiore del sepolcro, fu ricollocato nella zona destra della controfacciata.
La collocazione originaria della tomba sarebbe stata un’ottima fonte per comprendere quale ruolo si arrogassero i Sanseverino all’interno della loro autorappresentazione familiare in rapporto con la collettività cittadina. E’ forse ipotizzabile, vista la bellezza dell’opera e la potenza della casata Sanseverino all’epoca della committenza, che la tomba avesse una posizione centrale all’interno della chiesa.
Per citare le parole della professoressa Marina D’Anzilio: “Se la tomba di Enrico era originariamente posizionata in prossimità dell’altare, significa che questo monumento era funzionale non semplicemente alla celebrazione della memoria del personaggio con messe specifiche, ma voleva porsi prepotentemente all’attenzione dell’intera comunità del territorio“.
Già la committenza della tomba all’artista Tino di Camaino, fortemente legato alla corte angioina, dimostra la vicinanza del casato alla corona in questo periodo storico, anche nel campo dell’autorappresentazione artistica. Il gisant di Enrico presenta inoltre fattezze dissimili da quelle convenzionali: la veste è costituita da una tunica e da un mantello che avvolge per intero il corpo del personaggio. Tale mantello, sul quale si intravedono ancora rimanenze di pittura rossa, presenta delle nappe. Tale vestiario potrebbe essere “un tipico outfit dei dignitari anìgioini”, o quantomeno un elemento di valorizzazione ed enfatizzazione del potere di Enrico II.
La tomba di Enrico II Sanseverino presenta, nella parte superiore, un insieme di figure la cui interpretazione è apparsa difficoltosa per gli studiosi, specialmente per via della sopracitata ricostruzione avvenuta nella seconda metà dell’ottocento. La parte superiore, o almeno ciò che ne rimane, è composta da un’insieme di figure di diversa età ritratte nell’atto di pregare. Tale rappresentazione va ad unire due motivi comuni all’interno della rappresentazione funeraria di epoca angioina: le figure del lamento, i pleurants, e la ritrattistica dei familiari.
Nel primo caso vi è una tensione verso la funzione religiosa del monumento funerario, mentre nel secondo l’accento è posto sulla gloria del casato inteso anche come prosecuzione e coronamento dell’opera del defunto. In questa opera Tino di Camaino unisce, dal punto di vista artistico, i due modelli rappresentativi con una soluzione artistica di grande impatto estetico ed originalità.
Un particolare rilievo nella scena apicale lo hanno due figure: una Vergine con bambino affiancata da un uomo che tiene tra le braccia un infante. Per quanto concerne la vergine ci troviamo innanzi ad un elemento scultoreo non dissimile da altri ritratti della Vergine presenti nella Napoli angioina, così come nel resto del sud Italia. Essa riprende le fattezze della Vergine eleousa, raffigurazione di origine bizantina rifunzionalizzata più volte in diverse tradizioni artistiche della penisola e non solo.
Per quanto concerne invece la figura dell‘uomo con bambino vi è un’identificazione assai più problematica. E’ possibile interpretare tale figura come un esempio dell’ “elevatio animae“, rappresentazione artistica dell’anima del defunto che ascende in paradiso. La tradizione scultorea medievale ci ha lasciato numerosi esempi estremamente eterogenei di tale motivo iconografico. In molti di essi l’anima del defunto veniva rappresentata come un infante. La scultura che affianca la Vergine potrebbe rappresentare un santo (dalla difficile se non impossibile identificazione), o lo stesso Dio, nell’atto di accogliere l’anima del defunto.
-Silvio Sannino
Bibliografia
Marina D’Azilio: Il monumento funebre Sanseverino nella pieve di Santa Maria Maggiore di Diano: alcune considerazioni, in Le Diocesi dell’Italia meridionale nel Medioevo, Ricerche di storia, archeologia, storia dell’arte, atti del Convegno, Benevento, Cerro al Volturno, Volturnia Edizioni 2019, pp. 201-216
Giuliana Vitale: élite burocratica e famiglia: Dinamiche nobiliari e processi di costruzione statale nella Napoli angioino-aragonese
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