Un leader è colui che guida e si batte per il bene di un’intera comunità, come Masaniello, un semplice pescivendolo, che si fece carico di rappresentare gli umili, coloro che vivevano di pane e di frutta. Sulla frutta però gravava una gabella, che portò non pochi disordini nella Napoli del 1647.
Tommaso Aniello d’Amalfi, l’uomo di Genoino
Nel XVII secolo la Francia e la Spagna si contendevano il territorio europeo, i sovrani spagnoli ritenevano che le forze militari fossero lo strumento più utile per accaparrarsi il maggior numero di territori.
Il Regno di Napoli era tra i più colpiti dalla politica estera della Monarchia spagnola, che imponeva sempre più tasse per sostenere le spese militari. L’amministrazione del regno di Napoli era divisa in sei seggi, una sorta di circoscrizioni politiche di cui cinque governate dai nobili e una dal popolo, con questo dato capiremo quanto fosse squilibrata la divisone del potere nel Regno. il sistema di riscossione era detto dell’arrendamento, i nobili anticipavano alle casse del viceré una somma che serviva a sostenere le spese militari spagnole, somma che doveva essere recuperata con la riscossione delle tasse, imposte al popolo.
Il popolo era sottoposto a continue vessazioni con tasse esorbitanti da pagare, e fu questa la causa della rivolta, una rivolta che si basò non soltanto sulla rivendicazione fiscale ma anche su quella sociale.
La rivolta fu capeggiata da Tommaso Aniello, meglio noto come Masaniello, che pare sia nato e cresciuto in Vico Rotto, nei pressi di piazza Mercato, anche se per lungo tempo si è pensato venisse d’ Amalfi. La leggenda popolare racconta che l’errore fu causato dal fatto che non si poteva accettare che nella fedelissima Napoli ci fosse un rivoluzionario, ma possiamo anche supporre che avesse preso quest’appellativo dal padre, Francesco D’Amalfi.
Pescivendolo di umili origini, non disdegnava di praticare anche un po’ di contrabbando, ed è per questa sua attività illecita che fu più volte imprigionato. Nelle carceri venne a contatto con alcuni intellettuali seguaci del frate Giulio Genoino, che gli iniziarono a parlare del malgoverno e di quanto fosse screditata la plebe. Fu presentato successivamente al religioso, ideatore e mente della rivolta contro il viceré, il duca D’Arcos, che aveva imposto l’ennesima gabella sulla frutta
Masaniello si dovette indebitare e non poco per far uscire la moglie Maria dalla prigione perché, dopo aver introdotto in città una sacca di farina, si era rifiutata di pagare il dazio doganale. A Genoino serviva un agitatore, una persona che ci mettesse la faccia e che coinvolgesse la plebe in un’epoca in cui gli ordini delle classi sociali erano rigidi e Masaniello doveva servire a unire il popolo.
La rivolta di Masaniello
La rivolta iniziò il 7 luglio 1647, giorno in cui in piazza Mercato molti contadini si rifiutarono di pagare la gabella imposta sulla frutta, rovesciando i prodotti che avevano appena raccolto per essere venduti al mercato, chiedendo di eliminare la tassa che gravava sulla frutta.
I gabellieri non ascoltarono, e l’eletto del popolo, Andrea Naclerio, invitò la folla a pagare la gabella, ma questi guidati da Masaniello insorsero al motto di – “niente gabelle, morte al mal governo, viva il re di Spagna” -. I rivoltosi durate la prima giornata presero d’assalto i palazzi baronali, gli uffici del fisco, il palazzo del viceré e le carceri, tutti gli istituti che davano potere alla nobiltà. Il viceré fu costretto a scappare e a rifugiarsi nel convento di San Luigi, che si trovava di fronte al Palazzo Reale. Contemporaneamente, nella chiesa del Carmine si insediò il comitato segreto della rivolta per stilare tutte le richieste fatte dal popolo al governo spagnolo, con a capo Giulio Genoino. Tra queste c’erano: l’abolizione di tutte le tasse, maggiore rappresentanza al popolo e il diritto al voto.
Durante la seconda giornata di rivolta i tumulti in città continuano e il duca D’Arcos cercava una mediazione con i rivoltosi, accettando di abolire le tasse, ma cercava anche di corrompere Masaniello, che era un uomo onesto e rimase fedele ai suoi principi.
Il 10 luglio il nobile Giuseppe Carafa fu ucciso dai rivoltosi, come risposta all’attentato fallito che avrebbe dovuto eliminare Masaniello. Il giorno dopo si tenne un’assemblea generale al Carmine, per legalizzare la rivoluzione e far tornare alla vita normale la città. Il 12 luglio Masaniello iniziò a governare la città con il titolo di Generale della popolazione, ma già il 14 luglio un gruppo di popolani studiava il modo per eliminarlo.
Ucciso come un reo onorato poi come un santo
Masaniello perse il suo equilibrio e non riusciva più a contenere l’insofferenza del popolo che voleva ritornare alla normalità: dal 12 al 16 luglio sembrò quasi impazzire, sentiva di avere i giorni contati, credendo di essere stato avvelenato, probabilmente da un fungo allucinogeno, durante una cena nel palazzo del viceré, che lo aveva invitato per tentare nuovamente di corromperlo.
Il 16 luglio, giorno di santa Maria del Carmine, nell’omonima chiesa, durante la celebrazione della messa dal pulpito iniziò a delirare e così fu rinchiuso in una cella dei monaci. Mentre dormiva fu ucciso con quattro colpi di archibugio al petto, da persone che erano state suoi amici e che lo avevano sostenuto durante la rivolta. Gli esecutori materiali del delitto furono corrotti dal viceré, che promise ingenti quantità di denaro a chi avesse partecipato alla congiura, promesse che non furono mantenute e che i congiurati lamentarono al re di Spagna, come testimoniano le lettere trovate nell’Archivio Reale Spagnolo.
La testa di Masaniello fu mozzata dal corpo e messa in esposizione a Piazza Mercato, mentre il suo corpo fu massacrato e lasciato tra i rifiuti sulla vicina spiaggia diventando cibo per cani.
Il popolo aveva distrutto il proprio idolo e la corte spagnola attendeva il momento giusto per ritornare a governare Napoli. I tumulti continuarono, ma ormai la rivolta era destinata a finire e il popolo, non avendo più una guida, agiva in modo disorganizzato.
Si comprese immediatamente di aver commesso un grave errore uccidendo Masaniello, anche perché il giorno dopo la sua morte il prezzo del pane salì di 13 once rispetto al prezzo stabilito da Masaniello.
Presi dallo stesso furore con cui avevano attentato alla vita del proprio capo, recuperarono i pochi resti del corpo abbandonato sulla spiaggia, lo lavarono e cercarono di ricostruire con la cera le parti tagliate, infine gli riattaccarono la testa mozzata e lo vestirono con l’uniforme di generale della popolazione. Gli tributarono esequie solenni nella chiesa del Carmine, il corteo funebre fu seguito da 45000 persone. Masaniello è da allora venerato come un santo dal popolo napoletano, diventando emblema di libertà e rivoluzione.
Fu sepolto nella chiesa del Carmine e lì rimase fino al 1799, quando il sovrano Ferdinando IV di Borbone decise che per salvaguardare la monarchia i pochi resti del corpo di Masaniello dovevano essere dispersi. Il motivo di questa decisione fu che in quell’anno un moto indipendentista voleva la città di Napoli trasformarsi in una Repubblica e i rivoltosi vedevano il personaggio di Masaniello come il primo repubblicano di Napoli. Masaniello fu però frainteso dai contemporanei dell’epoca, perché egli non voleva la città di Napoli libera dalla dominazione spagnola, anzi sostenne fino alla morte il re di Spagna, il motivo della rivolta fu il bisogno di cambiamento della popolazione, stremata dalle tasse e dalle continue discriminazioni dei nobili.
All’interno della chiesa del Carmine commemorano Masaniello due lapidi in marmo, una nel convento dei frati dove fu ucciso, mentre l’altra indica il luogo dov’era stato sepolto.
Masaniello: un simbolo in tutta Europa
Dopo la morte di Masaniello, mentre a Napoli il ricordo dei moti del biennio 47/48 iniziava ad offuscarsi, l’Europa del 1648 fece da cassa di risonanza al fenomeno storico e al personaggio misterioso che fu il capo popolo napoletano. Si pensi che in Olanda si arrivò a coniare una moneta che accostava due eroi della rivoluzione da un lato l’immagine di Masaniello, dall’altro il busto di Oliver Cromwell.
Nel settecento in un’Europa attraversata dai valori liberali dell’illuminismo, Masaniello divenne un archetipo popolare di libertà.
Je so pazz e le ultime parole di Masaniello
Nei secoli Masaniello si è trasformato in un mito, ricordato in tutta Europa, rivivendo non soltanto negli oggetti e nella cultura europea, ma anche nel brano “Je so’ pazzo”, lanciato al Festivalbar nel 1979, uno dei testi più popolari di Pino Daniele.
Premiato disco d’oro nel 2009 è un brano che ascoltiamo tutt’oggi che ci ricorda il talento del grande cantautore napoletano, inno alla libertà che si identifica nella follia, tema centrale nel discorso di Masaniello al popolo fatto qualche giorno prima di essere ucciso. È da questo testo che Daniele prende ispirazione e fa rivivere la figura del pescivendolo citandolo indirettamente e direttamente nel testo.
Un discorso ancora attuale e di grande impatto umanitario, leggendolo ci trasporta in quella che era la realtà di Masaniello, ormai consapevole del suo destino. Dal discorso traspare la voglia di riscatto e di cambiamento, nata come una fantasia ma poco dopo diventata reale grazie all’appoggio del popolo, un incoraggiamento a non abbassare la guardia a lottare per la propria libertà:
“Amice miei, popolo mio, gente: vuie ve credite ca io so’ pazzo e forze avite raggione vuie: io so’ pazze overamente. Ma nunn’è colpa da mia, so state lloro che m’hanno fatto ascì afforza n’fantasia! Io ve vulevo sulamente bbene e forze sarrà chesta ‘a pazzaria ca tengo ‘ncapa. Vuie primme eravate munnezza e mò site libbere. Io v’aggio fatto libbere! Ma quanto pò dura’ ‘sta libbertà? Nu juorno?! Duie juorne?! E già pecchè pò ve vene ‘o suonno e ve jate tutte quante a cuccà. E facite bbuone: nun se pò campa’ tuttà ‘a vita cu ‘na scupetta ‘mmano. Facite comm’a Masaniello: ascite pazze, redite e vuttateve ‘nterra, ca site pat’ ‘e figlie. Ma si ve vulite tenere ‘a libbertà, nun v’addurmite! Nun pusate ll’arme! ‘O vedite? A me m’hanno avvelenate e mò me vonno pure accidere. E ci ‘hanno raggione lloro quanno diceno ca nu pisciavinnolo nun pò addeventà generalissimo d’a pupulazione ‘a nu mumento a n’ato. Ma io nun vulevo fa niente ‘e male e manco niente voglio. Chi me vo’ bbene overamente diccesse sulo na preghiera pe’ me: nu requia-materna e basta pe’ quanno moro. P’ ‘o rriesto v’ ‘o torno a di’: nun voglio niente. Annudo so’ nato e annudo voglio murì. Guardate!”
bibliografia
La storia di Napoli, V. Gleijeses
Storia irriverente di eroi, santi e tiranni di Napoli, Giovanni Liccardo
Masaniello l’eroe il mito, Vittorio Dini
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