Da simbolo del progresso a cattedrale del male: la narrazione attorno alle Vele di Scampia non ha mai conosciuto mezzi termini ed è ancora oggi uno di quei simboli di Napoli che, nel bene e nel male, è ormai onnipresente nei racconti della città.
Tutto, in realtà, cominciò negli anni ’60 con un progetto: dare al popolo una residenza “dei sogni”, con architetture dalle atmosfere futuristiche in cui mettere 220 famiglie per farle convivere pacificamente. Fu un disastro.
Cosa c’era prima delle Vele?
Di fattura umana nulla. Scampia è infatti il nome di un piccolo borgo che ricadeva nel vicino comune di Secondigliano, poi diventato provincia agricola di Napoli.
Con la parte nord di Scampia, infatti, iniziava l’Agro Napoletano. Era una terra ricchissima di alberi da frutto, in special modo noci e mele, e si estendeva lungo tutti i paesi che oggi sono la popolosissima e congestionata provincia di Napoli, come Marano, Melito, Villaricca e Mugnano.
Sopravvivono però alcuni sparuti reperti di una villa romana, che spuntano lungo la strada, e ci raccontano di come quest’area doveva essere un fondo appartenente a una famiglia antichissima.
L’emergenza case
Quando fu approvato il progetto delle Vele di Scampia, il quartiere in realtà già esisteva da poco più di un decennio: con la legge 167 del 1962, infatti, si definì per la prima volta la disciplina dell’edilizia popolare, cercando di contrastare le costruzioni selvagge che stavano devastando i panorami dell’Italia intera.
A Napoli il risultato più famoso di questa legge fu proprio Scampia, che in gergo è spesso soprannominata “la 167” (ma anche il Rione Traiano e Ponticelli nacquero così), con i primi edifici che furono completati nei primi anni ’70, quando il quartiere era di fatto completamente isolato dalla città: non esisteva infatti l’Asse Mediano e la Metropolitana di Scampia sarebbe arrivata solo dopo vent’anni.
Il problema, però, era evidente: sin dal 1945 l’emergenza sfollati di guerra era un problema enorme per lo Stato, che fu affrontato con la nascita dell’Edilizia Popolare con la Legge Fanfani del 1949. Poi ci pensò il boom delle nascite a far schizzare ancora di più l’esigenza di case nuove: ci basterà pensare che il 25% degli edifici costruiti dopo quella data fu sovvenzionato dallo Stato grazie a quella legge.
La Cassa per il Mezzogiorno, che fu uno dei più famosi e discussi strumenti per rilanciare l’economia del Sud Italia distrutta dopo la Guerra, decise di concentrare enormi investimenti sulla costruzione di una “città popolare” che non fosse solamente un dormitorio o un ghetto, ma un vero e proprio centro autosufficiente a dieci minuti dal centro di Napoli.
Il sogno di una città ideale
Il concorso lanciato dalla Cassa per il Mezzogiorno fu vinto dal progetto di Franz Di Salvo, un architetto che propose una visione futuristica: sette palazzi dalla stazza immensa, disegnati ispirandosi alle forme del leggendario Le Corbusier. Tutt’attorno ci dovevano essere giardini ampi, chiese, centri commerciali, strade a tre corsie e centri di socializzazione in una sorta di utopia architettonica degli anni ’60.
Proprio in quegli anni stavano infatti spuntando “Vele” in ogni parte del mondo: da quelle di Marina Baie Des Anges, che oggi sono ancora un residence di lusso, al villaggio olimpico di Montreal.
Le Vele, per com’erano progettate all’interno, dovevano “replicare l’atmosfera del vicolo”, con lunghissimi ballatoi metallici in eternit che dovevano creare un senso di comunità fra i residenti delle varie case: alcune di queste godevano anche di ampi terrazzi e balconi panoramici con vista Vesuvio.
I primi problemi, però, nacquero già durante la costruzione: le imprese vincitrici dei bandi, infatti, realizzarono le Vele di Scampia con proporzioni alterate, in special modo nei corridoi interni, che diventarono molto più stretti rispetto ai progetti degli interni presentati da Riccardo Morandi, lo stesso del Ponte di Genova.
E divennero, sin dall’inaugurazione, un luogo buio, umido e inospitale, tormentato dal vento che era causato dalle depressioni atmosferiche. D’altronde, gli stessi “vicarielli” di Napoli, in tempi antichi, non godevano affatto di buona reputazione e di certo non erano un modello invidiabile da replicare.
Le variazioni sul tema furono diverse: non furono mai realizzati gli spazi comuni, con palestre, aree gioco e scuole. Anche gli interni furono diversi: dal vetro che doveva caratterizzare i balconi si arrivò ad usare il cemento armato, ben più economico, ma cupo e oppressivo. Anche la posizione degli edifici, lontanissima da qualsiasi attività commerciale e isolata proprio dalle ampie strade, creava ulteriori disagi ai residenti.
Poi a dare forfait furono gli ascensori di diverse Vele, un po’ come è accaduto con le scale mobili del Centro Direzionale: smisero di funzionare dopo pochi anni dalla loro inaugurazione (altri non funzionarono mai!) creando enormi disagi per i residenti dei piani alti (che erano ben 14!). E nessuno mai è intervenuto per riparare qualcosa. Tutto andava in malora, anno dopo anno. E i cittadini cominciarono ad arrangiarsi in autonomia.
Insomma, i segnali preoccupanti c’erano tutti quando le Vele di Scampia furono inaugurate nel 1975, dopo 12 anni di lavori.
Poi arrivò il terremoto del 1980, che fu la goccia che fece traboccare il vaso.
La polvere sotto al tappeto
Nella storia dei fallimenti della Campania potremmo tracciare una linea fra il pre e il post terremoto del 1980. Se infatti Villaggio Coppola ancora oggi piange il declino degli anni ’80, la periferia di Napoli non fu da meno, fra piani falliti ed errori nella gestione dell’emergenza che ancora oggi si ripercuotono sulla vita dei quartieri.
Al tempo del terremoto, infatti, le Vele di Scampia non erano ancora del tutto abitate e molte furono occupate abusivamente, aggravando terribilmente tutti i fenomeni negativi che già stavano dando creando enormi grattacapi per la vita dei residenti.
Nel frattempo cominciarono a sorgere numerosissimi lotti di edifici, approvati al Comune con la massima urgenza, per accogliere gli sfollati della provincia di Napoli. Tutti i progetti di aree comuni e servizi furono accantonati e, in un territorio isolato e poco presidiato dalle forze dell’ordine, spopolò la criminalità organizzata che ancora oggi macchia ogni storia del quartiere residenziale.
Nonostante gli immensi sforzi delle associazioni e degli attivisti che, ogni giorno, cercano di raccontare la quotidianità delle vele, fra tante persone oneste e vite condotte fra mille disagi, per le Vele di Scampia scollarsi l’immagine di luogo del male è un’impresa assai complessa.
In questa storia fatta di sogni inadatti e di esperimenti tragicamente falliti, il grande assente è lo Stato, padre di un complesso di strutture pagato decine di miliardi di lire.
Dinanzi ad errori mai riparati ed un’immagine che ormai è un simbolo, l’unica reazione fu nell’esplosivo, negli sfratti e nelle ruspe, prima nel 1997, poi nel 2003 e infine nel 2020, nella speranza di ridurre i propri sensi di colpa in polvere da mettere sotto al tappeto e di dare, nei progetti, una rinascita a Scampia partendo proprio dalle sue Vele.
Nel frattempo c’è chi si è già messo all’opera in autonomia: dai un’occhiata al Parco Corto Maltese!
Storia e foto di Federico Quagliuolo
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