Matilde Serao, dagli “albori” a “Il Giorno”
Matilde Serao, nata a Patrasso nel 1856 e trasferitasi in tenera età a Napoli, città natale del padre e giornalista Francesco Serao, è uno dei personaggi di maggior rilievo nella storia del giornalismo, noto in tutta Italia (ed Europa) e amato, specialmente, nella sua Napoli, a cavallo fra il XIX-XX secolo. Appassionata e talentuosa, dal temperamento viscerale e impulsivo, la Serao non poté che affermarsi fin da giovane in un mondo estraneo a qualsiasi donna ottocentesca: quello redazionale, al tempo oscuro, maschilista e inaccessibile al “sesso debole”.
Sollecitata dal proprio amore per la scrittura e la letteratura, la Matilde Serao degli esordi si mise alla ricerca della propria strada per assumere la voce di donna all’interno dell’ambiente giornalistico. Come tutt’ora avviene, non trovando sbocchi nella sua amata Napoli, Matilde Serao avvertì la necessità di trasferirsi nella capitale, ottenendo, a partire dal 1881, grazie alle sue brillanti qualità, il ruolo di redattrice presso il “Capitan Fracassa”.
Contando poi sulla collaborazione col novello sposo Edoardo Scarfoglio (il quale era già un affermato critico e autore nel 1885, anno in cui si celebrò il matrimonio fra i due), la Serao fondò “Il Corriere di Roma” (1885-1887). Tornata nel capoluogo campano insieme al marito, diedero vita al “Corriere di Napoli” (1888) e a “Il Mattino” (1892). Quest’ultimo, uno dei giornali ancora ad oggi più letti e acquistati in Campania, venne dopo poco abbandonato dalla redattrice Matilde Serao, a seguito della separazione dal coniuge Scarfoglio, con il quale la cronista non aveva più alcun interesse nel condividere lo stesso ambiente lavorativo.
Fu così che, lasciata la codirezione ufficiosa presso “Il Mattino”, la Serao divenne la prima donna nella storia del giornalismo italiano a fondare autonomamente una testata giornalistica, “Il Giorno” (1904). Il giornale che aveva dato alla luce, fu da lei gestito in nome di collaboratrice, (assegnandone, invece, la direzione al neocompagno Giuseppe Natale), fino alla morte, avvenuta a Napoli nel 1927.
La troppa napoletanità della penna di Matilde Serao
Seppur da un lato la giornalista e scrittrice Matilde Serao non sia nata a Napoli e, una volta trasferitasi lì, sia poi stata tenuta lontano dal capoluogo campano a causa di esigenze lavorative per svariati anni, dall’altra parte mostrò un attaccamento incredibile per una città che la accolse, dandole amore e ricevendone altrettanto. Napoli trasmise alla Serao un temperamento “meridionale” caloroso ed esibizionista, un tipo di attitudine che non contagiò solo il suo carattere ma anche e specialmente la sua penna.
La Serao, accusata dalla critica di avere in sé “troppa napoletanità” e di averla erroneamente applicata allo stile e alla lingua dei suoi articoli e romanzi, non rinunciò mai a far scorgere nelle sue pubblicazioni l’appartenenza al popolo, alla cultura, alla tradizione e alla lingua napoletana. La scrittrice, infatti, adorava intrecciare, in quelli che poi divennero gli arditi esperimenti della sua carriera da romanziera, l’italiano standard e il proprio dialetto, o, ancora, tematiche appartenenti alla letteratura alta e altre proprie della narrativa popolare napoletana.
Nonostante la consapevolezza della Serao di non essere capita, né tantomeno apprezzata, da una parte dei suoi colleghi, a causa del miscuglio di correnti letterarie, stili, linguaggio e temi trattati nei suoi testi, ciò non la lasciò intimidire a tal punto da rinunciare alla sua “napoletanità” o al “calore popolare” della sua penna. Al contrario, come sostenne in un articolo pubblicato nella rubrica “Api, mosconi e vespe“, sebbene ammirasse coloro capaci di “scrivere bene”, lei, anche se avesse imparato a farlo, si sarebbe infine rifiutata di applicare un metodo di scrittura diverso da quello che amava e che le apparteneva.
Matilde Serao, paladina di Napoli
Matilde Serao avvertiva un forte spirito di appartenenza nei confronti della sua città d’adozione, tale da renderla una delle protagoniste dei suoi romanzi e racconti letterari. Napoli, più che da sfondo, infatti, irrompe nelle storie qui ambientate, attraverso le parole, i comportamenti, la mentalità e la lingua dei personaggi che vi abitano. Ma, oltre a presentare il capoluogo campano come ricco di misteri e curiosità, o come antico covo di miti e leggende, Matilde Serao si impegnò a offrire una voce diversa all’interno dei suoi contenuti letterari.
La Napoli in cui lei stessa si ritrovò a vivere negli ultimi decenni dell’ ‘800 non è unicamente quella “del mare, della pizza e del mandolino”, ma quella della povertà, dell’arretratezza e del colera.
La Serao, innamorata di una Napoli che non trovava più davanti ai suoi occhi, in quanto danneggiata, tra le altre cose, dalle pessime condizioni igieniche, dalla mancata distribuzione regolare dell’acqua, dall’assenza di condotti fognari ben funzionanti e dall’innalzamento del tasso di povertà e criminalità, sentì il bisogno di alzare la voce e condannare chi aveva portato a tutto ciò. A tal proposito, si distinse da altri giornalisti per il suo attivismo in campo sociopolitico e per il suo spirito di partecipazione, denuncia e schiettezza, finendo col rappresentare la “paladina di Napoli“.
Matilde Serao e “Il ventre di Napoli”
Accostandoci alla lettura del celebre “Il Ventre di Napoli” (1884), scritto da Matilde Serao a seguito della messa in atto del piano di “sventramento” della città napoletana, inaugurato dal presidente del consiglio Depretis, cogliamo la pungente critica e il coraggioso attivismo politico dell’autrice.
L’abbattimento del “ventre” della città consisteva nell’eliminazione di vecchi quartieri poveri e malfamati allo scopo, apparentemente, di risanare la città colpita dal colera. In realtà, l’intervento di Depretis, il cui aiuto era stato richiesto dal sindaco di Napoli per risollevare la città dalle difficili condizioni sanitarie, era finalizzato ad un’operazione di speculazione edilizia. Ed è qui che Matilde Serao smascherò Depretis e il tuo tentativo di sventramento, il quale aveva ridotto i poveri ad essere ancora più poveri e i malati ancora più malati. La Serao non si fece intimidire dai piani alti della politica, e denunciò apertamente il Governo, inserendosi in prima linea nel dibattito riguardante la questione meridionale.
Al tempo stesso, la Serao volle muovere una critica anche verso i napoletani del tempo che non avevano contribuito affinché Napoli si risollevasse: anziché andare a curarsi nei distretti sanitari, questi si affidavano a finti guaritori (truffatori); invece di comprare il latte in vetro, prendevano quello distribuito a porta a porta dai caprai.
Se da una parte, Matilde Serao si sentì in dovere di denunciare i napoletani non degni di esserlo (specialmente quelli che si abbandonavano al vizio del gioco o ai culti pagani), dall’altra si lasciò influenzare dallo spirito di pietà e comprensione verso un popolo che stava pagando il male fatto alla città da persone esterne e ben più potenti.
La Serao puntava ad attirare l’attenzione delle autorità e delle istituzioni, essendo consapevole che, una città così ricca di storia e di bellezze, non aveva il diritto di finire in mano alla corruzione e alla miseria.
Come tanti dopo di lei, utilizzò l’arma più potente, quella dell’intelletto e della cultura per colpire chi l’intelletto e la cultura non la aveva applicato, permettendosi di riservare a Napoli un trattamento che, di certo, una città del genere non meritava.
Il femminismo e/o l’antifemminismo di Matilde Serao
Matilde Serao mostrò un grande attivismo nel campo politico, economico e sociale, ma, con grande sorpresa, non si interessò, invece, a quello delle problematiche femministe.
Il personaggio di Matilde Serao non può smettere di sorprenderci per la sua ambiguità: è ben chiaro che fu una donna fuori dal comune. Infatti, riuscì, grazie al suo talento e alla propria ambizione, ad imporsi in prima linea come scrittrice in un mondo di scrittori, redattrice in un mondo di redattori e donna lavoratrice in un mondo di uomini lavoratori.
Fu capace, così, di sfuggire al ruolo convenzionale assegnato alla figura femminile dell’Ottocento (oltre che dei secoli precedenti), ovvero quello di moglie-madre-casalinga, destinata a crescere i figli, curare la casa e soddisfare le esigenze del marito. Tale condizione, di assoluta subalternità al sesso maschile e di manifestato sfruttamento, venne evitata dalla Serao che riuscì ad emanciparsi, contando sulle sue doti di intellettuale e letterata.
Nonostante, dunque, la giornalista fosse riuscita a smuovere e contestare il proprio status femminile apparentemente irremovibile e incontestabile, al tempo stesso non lottò affinché tutte le altre donne del tempo giungessero allo stesso obiettivo. Infatti, non sfruttò la sua influenza e fama per cambiare le dinamiche del mondo femminile, né propose nei suoi articoli esempi e consigli attraverso i quali permettere alla donna di sfuggire alle ingiustizie sociali che la rilegavano alla subalternità più assoluta.
Matilde Serao fu distante, ad esempio, dall’appoggiare le idee femministe che andavano diffondendosi al tempo, come l’estensione del diritto di voto alle donne e la legittimazione del divorzio.
Forse l’antifemminismo della Serao fu semplicemente uno “scudo” da tutte le accuse che avrebbero potuto bersagliarla, in quanto esercitava una professione da uomo. Probabilmente, pur di compiacere e di farsi accettare dal mondo degli uomini, suoi colleghi, Matilde Serao si lasciava “sconfiggere” da loro, mettendo da parte le proprie ideologie femministe che non sarebbero state né appoggiate né condivise da questi.
Fu così che non si ritrovò mai a denunciare il ruolo cristallizzato della donna ottocentesca, la sua subalternità, né tantomeno a proporre dei rimedi per fuoriuscirne, poiché era consapevole di star ricoprendo un incarico (quello dell’intellettuale) fino ad allora tipicamente maschile: lei stessa si descriveva, infatti, come “un lavoratore artefice”, usando il maschile. Anche nella rubrica “Api, mosconi e vespe” (a cui lavorò durante la collaborazione con “Il Corriere di Roma” e il “Corriere di Napoli”) preferì firmarsi con lo pseudonimo Gibus, un cronista immaginario di sesso maschile.
La Serao, ambiva a conquistare il suo posto nel mondo giornalistico e letterario “a furia d’urti e di gomitate” (così scrisse in un testo delle “Lettere Giovanili”), anche se questo significava inserirsi e adeguarsi ad un ambiente maschilista e patriarcale senza poterlo stravolgere. Un ambiente che, alla fin dei conti, anche se indirettamente, contribuì ad abbattere tramite la sua presenza, facendosi rispettare nonostante il suo sesso e apparendo agli occhi di tutti come donna d’intelletto, forte, coraggiosa e più esperta di tanti suoi colleghi uomini.
Matilde Serao fu la donna che aprì le porte del giornalismo al mondo femminile e Napoli non può che vantare di averla accolta, cresciuta e ispirata.
Bibliografia
M. SERAO, ‹‹A furia d’urti, di gomitate…››. Lettere giovanili, in ‹‹Nuova Antologia››, LXXIII, 1594, 1938. D. AMATO, Matilde Serao tra giornalismo e letteratura, a cura di Gianni Infusino, Napoli, Guida, 1981. A. BANTI, Matilde Serao, Torino, UTET, 1965. B. CROCE, Note sulla letteratura italiana nella seconda metà del secolo XIX, ‹‹La critica››, 1903. R. LUPERINI, “L’adulterio nel romanzo”, in www.laletteraturaenoi.it, 6 febbraio 2014. C. A. MADRIGNANI, Ideologia e narrativa dopo l’Unificazione, Roma, Savelli, 1974. T. SCAPPATICCI, Introduzione a Matilde Serao, Bari, Editori Laterza, 1995.
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