Il Carnevale a Napoli era una festa di eccessi, scherzi, insulti, addirittura violenze che il popolo portava in strada spesso senza alcun freno morale (e spesso anche legale). E le maschere del carnevale napoletano, con le loro figure caratteristiche e i loro soprannomi, rappresentavano proprio quell’animo ribelle e scalmanato che, nel giorno del carnevale, perdeva i vincoli di ogni schema sociale e finiva in una gigantesca celebrazione cittadina in cui tutto era permesso.
Ne parla il professor Domenico Scafoglio, ordinario di antropologia all’Università di Salerno.
Le maschere del carnevale napoletano
Tutta l’eredità che è giunta a noi delle celebrazioni popolari possiamo ricavarla solo da testi del ‘700 e dell’800, quindi relativamente molto giovani. Sappiamo per certo che il carnevale a Napoli era una festa molto sentita già nel medioevo e le maschere del carnevale napoletano hanno origini varie, che vanno da reminiscenze greche e romane alla personificazione di intolleranze regionali di vario grado.
La loro ricostruzione nel corso della storia è però difficilissima e frammentaria, in quanto sulle tradizioni popolari non si è scritto molto prima degli ultimi tre secoli. Tutti gli autori del XVIII secolo affermano, però, che le maschere erano “conosciute da molto tempo“.
Dopo la loro divulgazione e codificazione, paradossalmente, loro figure si sono nel tempo trasformate in macchiette folkloristiche e popolari, Pulcinella su tutti, anche e soprattutto per colpa del turismo che, già nel XIX secolo con il Grand Tour, cominciò a creare un lunghissimo filone narrativo alla ricerca di quell’aspetto stereotipato e folkloristico del popolo napoletano.
La Vecchia ‘o Carnevale
Era una maschera doppia, con due interpreti: uno rappresentava una signora anziana, l’altro era travestito da Pulcinella che, con due nacchere (le castagnelle), ballava sulle spalle della vecchia a suon di musica. Diventò una delle più amate dal popolo perché era ricchissima di riferimenti sessuali, con Pulcinella che spesso prendeva un bastone e lo infilava nel seno della vecchia oppure la molestava urlando le frasi più oscene, fra le risate degli spettatori. Spiega Scafoglio che questa figura, solo in apparenza volgare, è in realtà figlia di una ampia tradizione europea della “donna appassita”, che ricorre alla fine di ogni stagione dell’anno: su tutte c’è la Befana alla fine del Natale, ma anche la Vecchia della Quaresima, una tradizione campagnola comune in molte parti d’Italia in cui si uccide (simbolicamente) una signora anziana, simbolo della stagione invernale finita. Sono infatti tutte rappresentazioni simboliche della negatività del passato che, finalmente, va via.
Lo Spagnolo
Una delle maschere del carnevale napoletano presa direttamente dal teatro popolare: lo Spagnolo nacque proprio nei tempi del Viceregno e lo riconosciamo anche come il Capitan Matamoros, il soldato vanaglorioso. La sua origine si può rintracciare nel Miles Gloriosus di Plauto.
Il Medico e il cavadenti
Alessandro Manzoni lo ha trasformato nell’avvocato azzeccagarbugli dei Promessi Sposi. A Napoli c’era invece il medico, un personaggio dai vestiti tanto grandi e bizzarri da avere dimensioni smisurate e con degli occhiali giganteschi. Girava con una valigetta piena di strumenti medici e con sé c’era un facchino con un tavolino sul quale si eseguivano operazioni miracolose.
Era soprannominato anche “il ciarlatano del molo“: si faceva portare finti pazienti dai quali estraeva ogni sorta di oggetto: si racconta in “Usi e Costumi dei Napoletani” raccolti da De Bourcard che. durante lo spettacolo, si avvicinava un uomo con dolori di stomaco e il medico, conclusa l’operazione, fingeva di estrargli una rapa. Poi sentiva da lontano un urlo straziante di una donna incinta che, portata sul tavolo del miracoloso dottore, partoriva un melone fra gli strilli e gli insulti del pubblico divertito.
Il cavadenti era un altro spettacolo simile: un popolano girava con un vestito elegante vecchio e sgualcito, fingendosi un luminare della medicina napoletana. Declamava in pubblico monologhi di filosofia e storia con paroloni inventati e frasi sconclusionate. Poi, avvicinatosi un finto paziente con il mal di denti, lo curava tirandogli via l’intera mascella (per finta, ovviamente!) con una tenaglia gigantesca.
Pascalotto
Era un uomo con vestiti da donna e il viso truccato che spesso apriva il corteo: si esibiva con un tamburello mentre cantava, ballava e saltava per le strade, facendo il “mastro di festa“. Era il più amato dagli scugnizzi, che lo provocavano e gli tendevano scherzi spesso cattivissimi.
Don Nicola
Un altro professionista che il popolo sbeffeggiava fra le varie maschere del carnevale napoletano. Come la scuola medica napoletana fu famosissima, così la scuola giuridica fu l’altro vanto della nobiltà cittadina. E non è un caso allora se a finire sotto gli eccessi del corteo popolare furono anche gli avvocati, i giudici e i notai, che erano impersonati da attori improvvisati che, travestiti spesso con vestiti settecenteschi, finte medaglie e parrucche, passeggiavano per i vicoli della città declamando versi, rime, filastrocche e addirittura orazioni funebri per carnevale morto travestendoli da sentenze, leggi e altri atti giuridici. Quanto più facevano ridere i versi, tanto maggiori erano i soldi che il popolo gli gettava addosso.
Capitoli matrimoniali conchiusi, chiusi e pelusi mediante l’aiuto di Cola Caruso che da Monte Peluso venne tutto ‘nfuso, perché stava scaruso. E il tratto comune di amici e parenti tra il sig. Don Scarrafone Capone della città di Tripoli, Annipoli e Costantinopoli, da una parte.
Citazione dell’inizio di un finto contratto matrimoniale cantato da un Don Nicola
E la signora donna Dionora Pommadora sora di Zi Nicola, che cacava de core sempre a un’ora della stessa città, dall’altra parte
Il ruolo era difficilissimo: essendo seguiti da un folto gruppo di persone, i Don Nicola non potevano ripetere la stessa filastrocca più di una volta, pena il pestaggio o, nel caso migliore, gli insulti.
Anche l’incepparsi o l’insicurezza nel declamare i versi faceva partire i fischi degli spettatori, che poi massacravano di scherzi e insulti gli interpreti del personaggio. Allo stesso modo, i più famosi Don Nicola erano invece accolti con una vera e propria ola del pubblico,
In anni più antichi il Don Nicola aveva anche una caratteristica persa nel XIX secolo: parlava in calabrese. O meglio: un finto dialetto calabrese. I napoletani e i calabresi infatti non ebbero buoni rapporti per lungo tempo e in città era comune lo stereotipo dello studente di legge proveniente dalla Calabria, che giungeva a Napoli per far fortuna come avvocato. Una filastrocca riportata da Scafoglio recita così:
“Bennaia tuttu lu mundu, stu spantu di beddizza, Cumm’a sumaru mi tira a capizza, è bedda e graziosa, pe chidda facci bedda eu mi sentu venì la cacaredda!”.
Il Paglietta Calabrese
Proprio come il Don Nicola, il “paglietta” calabrese era una delle maschere del carnevale napoletano più denigratorie e offensive di tutte. Nacque esplicitamente per deridere gli studenti calabresi di giurisprudenza, poi si estese come modo generico per deridere tutti i paesani e i provinciali giunti in città.
La parola “paglietta” viene dall’usanza degli avvocati napoletani di portare un cappello di paglia nero ed è un termine usato nel parlato locale per indicare un legale truffaldino e intrallazzino, spesso è usato per riferirsi in modo dispregiativo anche agli avvocati praticanti o agli associati minori di un grande studio.
Il paglietta era vestito in modo appariscente e bizzarro e si comportava con fare ingenuo, timido, goffo e meravigliato davanti alle bellezze e alla ricchezza della grande città: quando si inaugurava il saccheggio della Festa della Cuccagna, il napoletano travestito da paglietta imitava un grottesco accento calabrese e gridava nomi contadini dei suoi immaginari parenti di paese, dicendo cose del tipo “se potessero vedere tutto questo ben di dio i miei cumpari! Quant’è bella Napuli!“, oppure, alla fine del saccheggio, chiedeva ingenuamente agli altri partecipanti se le cose raccolte fossero per lui o per il suo maestro.
Giangurgolo
Anche Giangurgolo fu caratterizzato dall’intolleranza regionale. E nemmeno a dirlo, il bersaglio è sempre il calabrese.
Non si sa esattamente la sua storia, ma è molto probabile che, fra le tante maschere del carnevale napoletano, questa sia in realtà una evoluzione del Maccus di Plauto, il servo stupido nella commedia dell’arte.
Ha il cappello a cono tipico del vestiario calabrese antico, una maschera rossa che gli copre solamente il naso, trasformandolo in una protuberanza enorme. Veste con un abito dai dettagli molto appariscenti e con le righe gialle e rosse, mentre alla cintola è appeso un piccolo spadino: parla di sé come un grande eroe, ma è vigliacco e fugge e chiede pietà quando gli scugnizzi gli tirano scherzacci durante la parata di carnevale. Racconta quanto sia bella e meravigliosa la sua terra d’origine, spiegando che è giunto a Napoli solo per conquistare le donne partenopee, ma anche qui colleziona solo figuracce, causate dal suo aspetto orribile e dai suoi modi rozzi, ingenui e ridicoli.
Sembra molto da vicino la figura del Capitan Matamoros, ma con i tratti di “inferiorità” del provinciale visti negli stereotipi cittadini.
Abbiamo anche una data del suo primo avvistamento: era l’anno 1618 e un attore napoletano, tale Natale Consalvo, si diede il soprannome di Capitan Giangurgolo.
Le maschere del Carnevale Napoletano oggi
Le maschere del carnevale napoletano oggi sono solo un antico retaggio storico. Lo stesso Giangurgolo è diventato paradossalmente la maschera tipica della Calabria, depurata da quegli elementi d’intolleranza che la caratterizzava a Napoli: diventò invece un modo per ridicolizzare i dominatori spagnoli.
La nuova cultura borghese del XIX secolo, già sotto il regno di Ferdinando II, cominciò a rendere meno violente le feste del popolo: la festa della Cuccagna ad esempio non fu più celebrata dopo Francesco I. Dopo l’Unità d’Italia, poi, ci fu la pietra tombale su quasi tutte le maschere del carnevale napoletano: alcuni personaggi diventarono invece simbolo del malcontento cittadino verso il nuovo governo: Antonio Petito, il più famoso pulcinella, ad esempio diventò molto politico nelle sue rappresentazioni.
Arriviamo al ‘900 e al secolo della globalizzazione: nel corso degli anni, con rapidità sempre maggiore, le tradizioni secolari del Carnevale popolare lasciarono sempre meno spazio alle manifestazioni sregolate di piazza e diventarono sempre più vicine al carattere puro della festa in maschera.
Ed oggi, fra chi organizza veri e propri cosplay e chi si traveste da ultimo protagonista della serie TV del momento, porta avanti il meglio di una tradizione secolare che oggi ci fa solo ridere, perdendo
-Federico Quagliuolo
Riferimenti:
Domenico Scafoglio, Il carnevale a Napoli, Newton Compton, Napoli, 1997
Francesco De Bourcard, Usi e Costumi di Napoli, Editrice Scientifica, La Spezia, 1992
Carlo Celano (a cura di Gianpasquale Greco), Notizie del bello, dell’antico e del curioso sulla città di Napoli, Rogiosi Editore, Napoli, 2019
Franco Mancini, Feste ed apparati civili e religiosi in Napoli, Editrice Scientifica, Napoli, 1997
Vittorio Gleijeses, Feste farina e forca, Società Editrice Napoletana, Napoli, 1977
Vocabolario Treccani