sartù
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Il sarù di riso è un classico della cucina napoletana.

 

“O’ riso scaldato era na zoza
Fatt’a SARTÙ, è tutta n’ata cosa
Ma quale pizz’e riso, qua timballo!
Stu sartù è nu miracolo, è nu sballo.
Ueuè, t’o giuro ‘ncopp’a a chi vuò tu:
è chiù meglio d’a pasta c’o rraù!”.

 

Le origini del Sartù di Riso

Si sa che il Napoletano, povero o ricco che sia, il piatto a tavola lo vuole saporito.
Così, quando verso il XIV secolo dalle navi aragonesi arrivò per la prima volta il riso a Napoli, non fu accolto con grande consenso.
“E che re stu SCIACQUAPANZA?”, così venne definito il cereale, per il suo sapore di natura un po’ insipido.
Addirittura dai medici salernitani veniva usato per curare le malattie gastro-intestinali (era periodo del colera e di altre epidemie).
Fu così che il riso venne esportato altrove, dove poteva essere coltivato.

Caso volle che quando successivamente i Borboni vennero a capo delle due Sicilie, portarono gli chef da casa loro. I così detti “Monzù” (in questo modo veniva storpiato e “napoletanizzato” il francese “Monsieur”).
Tali gran cuochi cercarono in ogni maniera di rendere gradevole il cereale e adatto alle nobili tavole, e per questo approfittarono dei classici ingredienti delle cucine napoletane. Prima di tutto un po’ di “pummarola” per renderlo saporito e colorato, e poi quanto altro poteva impreziosirne il gusto: carne, piselli, uova sode, salsiccia, formaggio e via dicendo.
Per modificarne anche l’estetica, che, si voglia dire il contrario, ha il suo ruolo, nascosero tutte queste aggiunte, rendendo il piatto una sorta di centrotavola, in francese “sur-tout“, poi riadattato a SARTÙ.

Il piatto fu accettato con gioia da ricchi e poveri, entrando ben presto a far parte del patrimonio della cucina napoletana, principalmente nei giorni di festa, essendo una preparazione piuttosto impegnativa.

-Lidia Vitale

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